venerdì 14 agosto 2009

MARIO LATTES

Torino, 10 ottobre 2008, Biblioteca civica «Villa Amoretti», Franco Pappalardo La Rosa presenta il libro di Francesco Granatiero, Passéte (“Passato”/“Usta”, postfazione di Giovanni Tesio, Novara, Interlinea, 2008)


Franco Pappalardo La Rosa

L’“OMBRA” E GLI SPECCHI:
LA DISINTEGRAZIONE DELL’IDENTITÀ
DEL PERSONAGGIO-IO NEL ROMANZO
L’AMORE È NIENTE


Il protagonista, io-narrante in prima persona, del romanzo breve di Mario Lattes L’amore è niente,[1] è un piccolo borghese “inetto”, un uomo “senza qualità”. Di sé quest’io non dice il nome, preferisce rimanere anonimo, perché «può sempre esserci qualcuno che se ne serve per farci del male. Dire un nome può portare molta disgrazia».[2] Proprietario di un negozietto di ottica ereditato dal padre, sta personalmente al bancone della vendita degli occhi artificiali (più che altro, trascorre il tempo a modellare teste di conoscenti con la plastilina e ad applicarvi gli occhi di vetro); lascia, invece, che a servire le montature e le lenti per gli occhiali ai rari clienti provveda il commesso Fumel, con il quale intrattiene un rapporto ambiguo: gli affida, sì, l’intera gestione dell’attività commerciale, però lo teme, ne sospetta presunte trame e sotterfugi intesi a sottrargli la titolarità del negozio («Lo venderò, il negozio? O il Fumel ha già tramato per diventare lui il padrone? Del Fumel non mi fido, non c’è da fidarsi…»).[3]
Come confessa, egli non ama, non ha mai amato, il suo lavoro; con gli anni gli è diventato insopportabile. Le motivazioni che ne fornisce sono tipiche dell’“inetto”: «Non che sia faticoso questo no, mi lascia molto tempo libero. Ma tutti i giorni alzarmi vestirmi e la faccia di Fumel… Che cosa mi prepara costui? Vuole godersi la mia rovina e impadronirsi del negozio? Faccia pure, se lo merita, anche la cattiveria va premiata quando è tanto tenace».[4] Parimenti, non ama se stesso («Spesso non mi capisco, non mi sono mai capito, vorrei essere un altro»[5]) e, benché sia convinto di risultare istintivamente antipatico alla gente, è lui, in verità, a non sopportare il prossimo (una sua riflessione: «Io il binocolo me lo comprerò sì un giorno o l’altro, ma per guardarci a rovescio e vedervi lontanissimi, ancora più piccoli di come siete che siete già piccolissimi»[6]).
Si capisce, fin da questi pochi tratti, che il personaggio narrante, non è soltanto un “inetto” («Non ho mai saputo cosa fare, nella vita, ciò mi appare spesso anche in sogno»[7]) e un “uomo senza qualità” frustrato, ma un soggetto più che sgangherato: un alienato, un “io” scisso e dalle identità e coscienza frantumate, disintegrate. Ad attestarlo è il suo atteggiarsi al confronto con la realtà che lo circonda. Afferma, infatti, di coabitare con una sorella, di cui teme gli sguardi («Se l’occhio è lo specchio dell’anima gli occhi di mia sorella somigliano sempre più a quelli di Velleda, quindi apriti cielo, meglio che tutt’e due ce li avessero di vetro, almeno non starei in pensiero»[8]), ma nessuno ha mai visto la donna, tanto che, nel quartiere, si dubita della sua effettiva esistenza;[9] afferma, poi, di avere dei figli adulti e un nipote ingegnere, ma nessuno ha mai incontrato questi altri suoi fantomatici parenti; nutre un odio feroce verso Velleda (la sua ossessione: «Mi metterei a pensare ma pensare è difficile. Mi viene soltanto di pensare a Velleda ma questo non lo voglio fare…»[10]): una creatura che gli avrebbe causato tanto male e dalla quale, dopo sedici anni di burrascosa vita in comune, si sarebbe separato, ma anche sulla reale esistenza di costei, nel corso della narrazione, sorge più di un ragionevole dubbio; non ha amicizie, interessi, frequentazioni; non ha ambizioni, se non quella – l’unica – di portare a compimento un romanzo (intitolato: L’amore è niente in confronto dell’eternità[11]), alla cui stesura afferma di lavorare da tempo, ma copiando brani e pagine di Storie Universali Illustrate, di Guide Turistiche, di vecchi giornali e riviste.[12]
Ed ecco far irruzione nel racconto Nathan Glazer, il protagonista de L’amore è niente in confronto dell’eternità, e sdipanare, anch’egli in prima persona, la “storia” che lo riguarda: i genitori, attori e proprietari di un ristorante in Polonia; la loro fuga da Vilna e il loro avventuroso arrivo nella Germania fra le due guerre (dove il personaggio che ora dice “io”, Nathan, è nato); la scomparsa del padre e la difficile adolescenza; la partenza per Parigi, sotto falso nome; l’arrivo, dopo qualche tempo, a New York… Nathan era stato anche in Italia, giuntovi con l’esercito americano durante la guerra. A Roma aveva incontrato Maria del Carmen Jurkewitch: «Fu la sera che Utica batté Albany 2 a 0. Non ho voglia di raccontare tutto questo racconto. Esso termina col matrimonio di Nathan con Maria del Carmen. Il nome è straniero ma lei è italiana. Non so dove l’ho trovato, questo nome, ma mi è piaciuto perché è un nome che fa paura, e somiglia a Velleda che fa più paura di tutto. La loro luna di miele durò soltanto quattro giorni, poi Nathan fu rispedito negli Stati Uniti a bordo della Queen Mary».[13]
A questo punto, però, il personaggio-io, autore del racconto in corso di stesura, si accorge d’essersi arenato: di non riuscire più a procedere nella narrazione. Egli, comunque, non intende rinunciare a concludere la sua opera. Per questo si rivolge a un coinquilino scrittore di successo, il Vela, affinché gliela completi e magari la pubblichi con il proprio nome (il mio romanzo, gli dirà, è «la storia di uno che non sa scrivere la propria storia e ricorre a lei perché gliela scriva»[14]). Inizia, così, la terza scheggia narrativa, incentrata sul rapporto fra il personaggio-io, autore del racconto, e lo scrittore Vela. Sta per iniziare, nel contempo, anche l’ultima, la più strampalata, scheggia di “storia” di cui si compone il romanzo di Lattes – quella, surreale e grottesca, dell’amore del protagonista-io, autore de L’amore è niente, e dell’immagine televisiva di un’annunciatrice –, che si svolge in parallelo alla vicenda sentimentale ed esistenziale di Nathan con Maria del Carmen, i personaggi del romanzo.
Lo scrittore interpellato accetta l’incarico, a patto, tuttavia, che il committente gli appronti per iscritto i vari episodi da romanzare. Questi, invece, consegnerà allo scriba manciate di foglietti, su cui ha annotato disordinatamente accadimenti, episodi e ricordi della sua vita, li ha attribuiti ai personaggi del romanzo e li ha proiettati in luoghi lontani, un po’ esotici, come a volerli allontanare il più possibile da sé e strapparli una volta per tutte dal proprio “vissuto”, o dalla propria stravolta e delirante immaginazione. La storia della sua vita e del suo ménage con Velleda diventerà, in tal modo, quella di Nathan con Maria del Carmen, dislocata in una New York da film di infima qualità, nel quale il personaggio del romanzo in corso di stesura, Nathan, reciterà il ruolo di uomo debole, senza spina dorsale, alla mercé della sua cara mogliettina, e rassegnato ad un’esistenza anonima, scialba, scandita dai continui tradimenti, dalle scene isteriche, dalle umiliazioni, dai ricatti. Fino a che un misterioso omicida – e la narrazione assumerà da qui imprevedibili coloriture di “giallo” – non lo libererà dall’ingombrante presenza della consorte.
Nonostante la confusione e il disordine degli appunti e dei foglietti fattigli avere dal committente, lo scriba Vela riesce a concludere la stesura del romanzo. Che, inviato ad un editore per la pubblicazione, viene rifiutato. L’io-narrante committente, tuttavia, non sembra dolersene. E, dopo aver appiccato il fuoco al suo appartamento e poi al negozio di ottica, esce in strada e vi incontra Nathan, il personaggio d’inchiostro da lui creato: ritrova, cioè, il suo io sdoppiato.


* * *

La narrazione organizza le varie schegge di “storie” secondo linee che si intersecano, si divaricano, seguono, a tratti, autonomi sviluppi e, poi, ritornano ad intersecarsi, ad aggrovigliarsi, a separarsi (perché, è la considerazione dell’io-protagonista, autore del romanzo in corso di stesura, «i fatti si nascondono si spostano si rimescolano[15]), e tratteggia i segni di uno stravolto universo tutto mentale, costituito dalle farneticazioni e dalle allucinazioni dell’io disintegrato nell’identità e nella coscienza, ridotto a labile ombra vagolante in un tetro labirinto di specchi. Un io privo di fisionomia e di corporea consistenza, che sembra proporsi come mera immagine (o “ombra”) mentale estrinsecata per il tramite della scrittura e percepire la realtà attraverso le immagini di essa; che pare confondere, anzi, le immagini del reale col reale stesso (si veda, per esempio, il rito serale della proiezione delle «figure in movimento» con il vecchio proiettore Mazo-Paris; oppure l’appuntamento dell’io-ombra con l’immagine dell’annunciatrice televisiva, oggetto del suo innamoramento, e la messe di segnali e di ammicchi che le rivolge e che crede gli siano rivolti).
Delle cause della frantumazione dell’identità e della coscienza dell’io, della sua riduzione ad ombra in movimento non dissimile da quelle degli idoli che, nel mito platonico, gli abitatori della caverna vedono transitare, e confondono con la realtà, sulla parete che hanno di rimpetto, lo scrittore non fornisce precise notizie; la sua scrittura, tuttavia, ripetutamente le lascia intuire in un forte trauma psichico: nella tempestosa convivenza con una donna – una vera e propria diavolessa – che ha reso al povero io, già di per sé uomo “senza qualità”, “inetto” e dalla personalità fragile, l’esistenza un vero inferno, facendolo soffrire atrocemente. Questa figura di donna, Velleda, forse un tempo amatissima, pur non distanziandosi troppo dall’apparire anche lei un’altra farneticazione, stavolta orrendamente deturpata, della mente del personaggio-io, acquista via via valenza di metafora: prima si trasforma in incarnazione della cattiveria, della malvagità, del male gratuito e immisericorde che può venirci dagli “altri” («se i malvagi portassero occhi di vetro potremmo guardarci senza spaventarci e ingannarci. Dovrebbero portarli, anzi, per ordine del Prefetto, gli esseri come Velleda, capaci di sguardi limpidi e dolci da crederli le persone più limpide e dolci di questa terra»[16]) e, poi, con una similitudine iperbolica che ha come termine di paragone sempre gli occhi della donna-diavolessa, in simbolo del male assoluto, come si è manifestato nel mondo contemporaneo a partire dalla comparsa di Hitler.[17]
Su come abbia potuto resistere tanti anni con una simile donna, l’io-ombra dà una risposta diretta, quando si rivolge al giudice della separazione («È stato per mancanza di ordine, signor giudice […], la giornata è troppo corta, subito viene l’ora di andare a dormire e ne comincia un’altra»[18]), e una indiretta al Vela, allorché lo scriba gli pone analoga domanda sulla vicenda coniugale del personaggio del romanzo in corso di stesura con Maria del Carmen. Egli gli spiegherà che Nathan ha resistito «per pietà, per paura anche…» e perché aveva «soltanto lei»:

— Perché rimaneva, Nathan? — chiedeva il Vela.
— Per pietà, per paura anche…
— Di che cosa?
— Aveva soltanto lei.
— La compiango.
— Nathan non aveva altro. È difficile, a volte […]. Non aveva nessuno, capisce? Si preferisce fingere, allora, — dicevo.
— A quel punto: fingere che cosa?
Non sapevo rispondere.
— È nel carattere del suo segno, — diceva il Vela, — Nathan cercava distruzione.
— Si dice così, se ne dicono tante. Distruggersi nessuno vuole. Era paura. La paura abitua anche al male e al dolore. Diventano destino».
[19]

La seconda è la risposta, ancora una volta, dell’uomo debole, riferibile sì ad altri ma per sé inammissibile: dell’”inetto” che non ha la forza di reagire, di ribellarsi, di liberarsi del male e del dolore, ma che può solo fantasticare di compiere, come se realmente la consumasse, la più crudele ed efferata delle vendette: quella di cavare con un coltellino gli occhi dalle orbite della donna, senza che lei se ne renda conto, e sostituirglieli con occhi di vetro:

— Anche se la nostra vita è andata come è andata —, diceva Velleda — anche se io ho le colpe che ho, si tratta di…
È inutile nominare di chi si tratta. Parlava pomposa come la conoscevo. Ciò aggiungeva piacere alla mia intenzione. Parla parla dicevo tra me […].
— Non preoccuparti, non preoccuparti, — ho detto a caso. Il coltellino l’ho sempre a portata di mano.
— Vieni qui, vieni.
L’importante è fare il primo taglio, il coltellino è affilatissimo e sta nella mano senza che si veda.
— Che cosa fai? — Non aveva provato il minimo dolore, era bastato un gesto, come per toglierle un capello dalla fronte…
— Niente niente, siediti, — C’era una sedia. Continuavo a toglierle quel capello, che adesso fingevo le fosse scivolato sull’occhio sinistro. In realtà incidevo torno torno la congiuntiva bulbare, penetravo dietro il bulbo, recidevo muscoli, nervi e vasi. In certe condizioni è un’operazione indolore.
— Che cosa fai? Me lo hai fatto andare nell’occhio, il capello.
— Un attimo, un attimo che te lo tolgo. —. Ho reciso il nervo ottico, — visto? —
Velleda rimaneva seduta sulla sedia, non sapeva cosa fare. La mia gentilezza la disorientava, le aveva guastato la scena madre […]. Senza darle il tempo di riprendersi, ho ripetuto l’operazione sull’occhio destro. Gli occhi di vetro li tenevo in una scatoletta, preparati con una speciale colla che rimane fresca se libera e indurisce immediatamente se messa al contatto di un corpo. Uno dopo l’altro li ho incollati sulle fasce dei bulbi e vi ho lasciato ricadere sopra le palpebre. Ho fatto qualche passo indietro per controllare l’effetto. Era magnifico.
[20]


* * *

Della crisi del personaggio-io o, più precisamente, della frantumazione e della dispersione dell’identità del personaggio-io protagonista del romanzo, si è occupato György Lukács. Secondo lo studioso ungherese, la crisi è collegabile a quella delle strutture romanzesche prodotte dalla società borghese: dalla lacerazione, originata da tale società, tra soggetto e oggetto, che ha dato luogo a due tipi fondamentali di romanzo, rispettivamente rappresentati dal Don Chisciotte e da L’educazione sentimentale. Nel primo tipo, l’io-protagonista si lancia a testa bassa contro il mondo, ignorandone lo spessore; nel secondo, egli si chiude e si isola in sé su una posizione contemplativa e intimistica. Lukács auspica la fine del genere romanzo, insieme con la società che l’ha prodotto. A meno che, finisce poi per ammettere lo studioso molti anni dopo La teoria del romanzo (che è del 1915), l’io-protagonista non assuma un atteggiamento diverso all’interno della struttura romanzesca. Poiché, infatti, si tratterà di narrare la condizione tipica della vita moderna – la scissione tra l’io e l’assoluto, tra l’anima e le forme –, il personaggio del romanzo e le strutture romanzesche che lo contengono potrebbero essere adatti a rappresentare simile condizione nella sua forma tragica. Che non potrà che essere rappresentazione realistica, intendendosi per realismo non il rispecchiamento naturalistico della vita quotidiana (come pretendono i fautori del realismo socialista), né un atteggiamento generalizzante inteso a cogliere le leggi della realtà (com’è quello della scienza), bensì lo sviluppo di un’intuizione sensibile del “particolare”, capace di stilizzarne l’elemento tipico e caratterizzante rispetto al contesto storico e sociale. Questo avviene soprattutto, ad avviso di Lukcás, nel romanzo ottocentesco di Balzac e di Tolstoj, e, successivamente, nel romanzo di Mann, il realismo dei quali si distacca da quello comune e banale e recupera la totalità significativa di un momento storico attraverso il “particolare” e il “tipico”.
Al personaggio-io, protagonista del romanzo di Lattes, alla disintegrazione e alla dispersione della sua identità e della sua coscienza non sembrano potersi applicare le teorizzazioni lukacsiane. Sia perché l’io-protagonista del romanzo del nostro scrittore non pare per nulla ripiegarsi in se stesso e chiudersi alla concretezza del reale in una sterile contemplazione intimistica di esso, sia perché, pur fornendo del mondo una non superficiale rappresentazione critica, mai mostra di voler porre in atto la ben che minima, donchisciottesca, ambizione di mutarlo, sia infine perché talune scene, taluni particolari di crudo, talvolta crudele, realismo, entro cui si muove, non solo non appaiono “tipici” e “significativi” della totalità del contesto storico-sociale nel quale egli vive, ma contengono addirittura una striatura di deformazione ironico-grottesca che li distorce decisamente in stralunata surrealtà (pensiamo, per esempio, alla tecnica della cattura e dell’uccisione dei topi; oppure alla scena del ritrovamento del cadavere di Maria del Carmen: a quel corpaccio d’uomo, sul cui collo tagliato poggia la testa della donna).
Bisogna, pertanto, cercare altrove la fonte configurativa della frantumazione e della dispersione dell’identità e della coscienza del protagonista-io autore de L’amore è niente. E in proposito, tenuto conto anche delle non poche spie psicoanalitiche che la scrittura di Lattes lascia trapelare (gli incubi dell’io, le sue ossessioni, le sue paure, l’impressione, terribile, che la sorella, oltre che alla detestata Velleda, somigli anche alla propria madre[21]), più che alla narrativa di scrittori italiani quali Pirandello o Svevo, volta a rappresentare la volontaria negazione dell’identità del personaggio-io nel suo aspetto “storico”, pubblico, vale a dire nel rapporto con gli altri e con il mondo (autocondannandosi, per ciò, alla solitudine, o alla malattia e all’inettitudine), si deve ricorrere a quella del mitteleuropeo Musil, dove tali disgregazione e dissoluzione, lontane dal ridursi a semplice, volontaria rinuncia all’identità personale, diventano ricerca e acquisizione salvifiche del vero sé, nella più autentica sua unità psicologica. Lo comprova un altro romanzo lattesiano, L’incendio del regio, là dove l’io protagonista si sbilancia in considerazioni [22] concettualmente più contigue al voler essere “nessuno” stilizzato dal citato scrittore austriaco.
Certo, il protagonista-io autore de L’amore è niente si rifiuta di “comunicare” il proprio nome; ma lo fa come strumento di difesa: perché l’esperienza della vita, oppure la sua mente sconvolta, l’ha indotto a ritenere che rendere di pubblico dominio il proprio nome potrebbe essere utilizzato da qualcuno per causargli del male (quel male, di cui ritiene di aver molto sofferto a causa, appunto, della cattiveria degli inamati “altri”, che vorrebbe tener distanti da sé il più possibile, vorrebbe guardare, per vederli più piccoli di quanto siano, attraverso un binocolo rovesciato). Nel rifiuto della “comunicazione” del nome non è incluso, com’è ovvio, il rifiuto del nome: il rifiuto dell’identità o la rinuncia ad essa (che, anzi, il protagonista-io intende proteggere dal “male” e dalla “disgrazia”). Certo, egli afferma di non essersi mai capito, tanto da desiderare di essere “un altro”; ma anche questa affermazione non implica un rifiuto o un’abdicazione della propria identità, bensì rimane ad un livello puramente ottativo, se è vero che, nonostante il disordine e la confusione con cui annota pensieri, ricordi, episodi, pene e traumi della sua esistenza, riesce (con l’ausilio dello scriba) a portare a compimento il suo romanzo: per il tramite della scrittura, riesce a trasferire quei pensieri, ricordi, episodi, pene e traumi al protagonista della sua opera narrativa e, con un’operazione di autoanalisi – una sorta di junghiana “individuazione”[23] – che si conclude in due fiammate purificatrici, può incontrare il suo io sdoppiato e finalmente riconoscervisi: accettarsi per quello che è.


* * *

La scrittura, in simile prospettiva, riveste una funzione fondamentale nel romanzo di Lattes, poiché, oltre a svolgere il compito, cui si è accennato, di strumento di autoanalisi del protagonista-io, alimenta lo stesso cuore pulsante della finzione e dell’artificio costitutivi dell’invenzione letteraria. Sostenuta da un sottofondo meditativo e morale, essa procede per libera associazione di riflessioni, di concetti, di pensieri,[24] di vaneggiamenti, e con un travolgente ritmo da discorso perpetuo, efficacissimo a rendere il frenetico farneticare del personaggio narrante. Una scrittura che allenta, sì, i suoi nodi sintattici (senza mai, peraltro, smarrire la coerenza dei significati del periodare), riduce all’osso i segni d’interpunzione, si fa mimetica del “parlato”, si espone al rischio dell’involuzione espressiva, della ripetizione, del luogo comune, della frase fatta, ma che a meraviglia si attaglia a rappresentare l’universo in frantumi – le fobie, gli incubi, i mugugni, le quiete follie, le allucinate visionarietà – del suo personaggio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non si vieta di smarginare in improvvisi spazi di delicato e buffo surreale,[25] né di punteggiarsi d’altrettanti improvvisi lampi di un’ironia ai limiti del grottesco-paradossale,[26] e neppure di aprirsi direttamente a sprazzi di impassibile, amara-tragica, comicità alla Buster Keaton, come avviene nelle pagine in cui l’io-protagonista prova sulle vetrine dei negozi, con le signorine che vi si specchiano, l’effetto della olhada portoghese – dell’occhiata inquieta e dolorosa, «fuoco saettante di mute dichiarazioni» –, prima di sperimentarla a casa, davanti all’immagine della presentatrice televisiva, per attirarne l’attenzione e “conquistarla”.[27]
Una scrittura, dunque, che ribadisce e difende lo spazio dell’artificio e dell’invenzione proprio dell’operazione letteraria (non a caso, riconoscendone la capitale importanza, il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, dirà allo scrittore Vela: «Senza di voi, se non interveniste a dare un nome alle cose, di Nathan non esisterebbe neppure una storia»[28]); e che impiega il linguaggio, l’aspetto verbale-comunicativo del mondo sociale, lo sfaccetta nei suoi vari livelli – dal “parlato” al poetico,[29] dal riflessivo all’ironico, dal grottesco al comico-tragico ecc. –, per fornire non una semplice rappresentazione dell’essenza della vita nel reale, ma un giudizio lucido, acuminato, su di essa (giudizio che traspare, per esempio, dalla seguente confessione: «… scrivo a caso e dimentico quello che ho scritto. Magari torno a scriverlo. Scrivo cose che stanno alla fine della storia e, dopo, altre che stavano al principio: ma non vanno forse così le ore e gli anni dell’Unico Giorno che è La Vita con grida e silenzi che si mangiano e cancellano tutto?»[30]).
Ed è in grazia dell’importanza attribuita alla funzione della scrittura, di cui sembra conservare un residuo barlume coscienziale, che il protagonista-io, al quale sfugge il significato dell’essere – suo e degli altri – nel mondo, decide pervicacemente di impegnarsi, unico scopo degno ormai della sua attenzione, nella stesura del romanzo (della fabula) della propria vita, con la segreta speranza che, obiettivandosela, rappresentandola criticamente, cioè giudicandola, riesca in qualche modo a scioglierne, a decifrarne e a comprenderne l’enigma. Per questo egli, quando si rende conto di come una vita inventata – poco conta che sia la sua o quella dei suoi personaggi d’inchiostro –, possa risultare più vera del più implacabile vero, ricorre allo scrittore professionista perché gliela reinventi (dato che «alla verità», come egli ragiona, «si arriva meglio inventando»[31]) e gli restituisca l’esistenza e l’identità perdute o mai avute.
Sono ancora una volta, pertanto, le tematiche cruciali – i pilastri – dell’universo inventivo di Mario Lattes a campeggiare anche ne L’amore è niente. Il vuoto incolmabile d’amore, in primo luogo, avvertito dallo scrittore come un deserto, dal quale nessun segno sembra provenire che renda meno desolata la breve avventura dell’essere nel reale e nella storia (con la conseguenza che, in reazione al continuo scacco del suo desiderio d’amare e di sentirsi amato, l’uomo finisce per non accettarsi, per sdoppiarsi, magari per rifugiarsi in scombinati altrove, senza riuscire ad eludere, comunque, il proprio destino di solitudine, di dolore, di pena, l’angoscia dei propri premonitori sogni di morte[32]). Qui acquista evidenza la lezione heideggeriana per cui esistere autenticamente (possederne la consapevolezza) significa, per l’esistente, non tanto essere-nel-mondo, quanto e soprattutto essere-per-la-morte accompagnato da una continua condizione d’angoscia: dal sentimento di scoprire, esistendo, la nullità di tutte le cose.[33] Di poi, l’impossibilità d’instaurare con il prossimo un qualsiasi rapporto solidale, derivante dalla verificata osservazione che, ad improntare ogni umana relazione, sia la diffidenza e il disprezzo da parte dell’“altro” e, soprattutto, la insensata, indemoniata corsa di ciascuno dietro al dio-denaro (come expressis verbis il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, dichiara là dove racconta un suo sogno ricorrente: «L’albergo del sogno è sempre molto sporco, ci sono escrementi dappertutto. Gli escrementi sono il denaro che c’è nel mondo, lo dice la psicanalisi: la gente gli corre dietro come indemoniata; ho un bel volergli parlare, alla gente, ha altro da fare. Io non corro dietro a niente…»[34]). La difficoltà, spesso l’impossibilità, inoltre, di comunicare con gli “altri”, che crea fra le persone barriere invalicabili, muri d’incomprensione, baratri di raggelante silenzio, sicché «anche le cose più semplici diventano muri alti tre metri oltre i quali non si va né si vede».[35] La convinzione, infine, neramente pessimistica – e, quindi, irrimediabile, in quanto attribuita dallo scrittore ad un difetto insito alla stessa natura umana –, secondo la quale «Tutti i guai vengono dal fatto non che le teste funzionino diverso ma che si vive credendo che funzionino uguale. Se vogliamo credere che le teste funzionino uguale dolori e vergogne di questa vita ce li meritiamo».[36]
Un pessimismo, peraltro, che, ancora sulla scorta della riflessione di Heidegger, mette in crisi la possibilità dell’uomo di raggiungere la verità e, più in generale, la possibilità di una metafisica capace di svelare l’essere, poiché essa può compiersi nell’uomo unicamente come destino spirituale: come rivelazione del mistero. In tale specola, significative risultano, ne L’amore è niente, le pagine (64-65) che Lattes dedica all’incontro di Nathan con le ombre dei genitori, o quelle (89-90), riprese poi, in terza persona e con varianti relativamente al personaggio Agur, ne Il Castello d’acqua (209-211), dove il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, come in sogno o in trance ritrova in casa i fantasmi dei propri defunti.


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[1] La Rosa Editori, Torino, 1985.
[2] Ivi, pag. 3.
[3] Ivi, pag. 13.
[4] Ivi, pag. 8.
[5] Ivi, pag. 13.
[6] Ivi, pag. 9.
[7] Ivi, pag. 18.
[8] Ivi, pag. 10.
[9] «Per dimostrare ai negozianti che mia sorella è una brava donna di casa, chiedo in questo o quel negozio se per caso è già passata di lì.
— Sua sorella? — dicono, — lei ha una sorella?
— Mia sorella, — dico, — non ricorda?
— Non sapevamo che avesse una sorella, — dicono, — ma guarda.
La volta dopo scuotono la testa e ridacchiano appena mi vedono.
— Sua sorella non è venuta, — dicono subito, e si scambiano occhiate. Allora esco senza comprare niente, resto senza mangiare.
Insomma sembra che mia sorella non ci vada, per le botteghe» (pag. 12).
[10] Ivi, pag. 5.
[11] Considerato «bellissimo» dal protagonista-io narrante (ivi, pag. 3).
[12] «Se il mio romanzo si è svolto finora in Germania è perché possiedo un bel libro con copertina nera istoriata a rilievi e titolo in oro. Il titolo è L’ALLEMAGNE. Ci sono tutti i nomi delle località monumenti e vie della Germania…» (ivi, pag. 17); «Da questo libro, dalla Storia Universale Illustrata e da vecchi giornali ho copiato molte cose. Poi viene il momento che libri e giornali non servono più, non c’è più niente da copiare, il foglio bianco è un lago insidioso…» (ibidem); «Copio mezza pagina, una pagina, se mi va bene tre pagine: poi il vuoto…» (ivi, pagg. 17-18).
[13] Ivi, pagg. 28-29.
[14] Ivi, pag. 39.
[15] Ivi, pag. 20.
[16] Ivi, pag. 10.
[17] «Gli occhi di Velleda sono fatti di specchi marci e neri che riflettono film e romanzi ma dentro c’è la pazzia di una potenza malvagia. E questa da dove viene? Gli specchi che avevano raccolto l’immagine dell’Austriaco, quando lui morì si ruppero in tanti pezzi. Erano specchi di caffè e specchi di ristoranti, di uffici pubblici e di camere d’affitto, aule scolastiche, palazzi. In Germania e fuori. Una grande esplosione. I frammenti di specchio volarono a distanze enormi, poi ricaddero qua e là sulla terra. Adesso Lui era dappertutto. Sui frammenti di specchi che avevano contenuto l’Immagine, altre immagini comparivano a poco a poco. Quella di Velleda era molto piccola perché molto piccolo era il pezzetto di specchio: ma perfettamente compiuta, a figura intera. I pezzetti di specchio, finiti dentro la terra, sotto le macerie, bisognava averli potuto distruggere. Ma nessuno li trovava. Se qualcuno li trovava, non poteva sapere. Così, senza che si sapesse, il mondo fu pieno dell’anima del Caporale che scomparendo aveva lasciato un vuoto irrequieto […]. La fragorosa sparizione del Maestro sollevò un pulviscolo di mostri orfani di Lui, che li comprendeva tutti» (ibidem).
[18] Ivi, pag. 19. Si confronti questa risposta con quanto l’io-narrante annota in ordine alla banalità e al tran-tran quotidiano del vivere del personaggio del romanzo in corso di stesura: «Sulla sera e sul mattino Nathan non aveva potere. Andavano e venivano. Lui si vestiva e si spogliava, si lavava e andava a dormire» (ivi, pag. 32). Il periodo, pressoché identico e riferito al personaggio Agur, si ritrova ne Il Castello d’Acqua, Torino, Aragno, 2004, pagg. 158.
[19] L’amore è niente, cit., pagg. 37-38.
[20] Ivi, pagg. 61-62.
[21] «Mia sorella vorrei che purtroppo non somigliasse a Velleda e tanto meno a mia madre…» (ivi, pag. 12).
[22] Torino, Einaudi, 1976, pag. 18: «Anch’io potrei cambiare nome, non sono nessuno, io, il nome è soltanto un suono, non è necessario che sia sempre lo stesso tanto più che moltissimi altri ce l’hanno uguale al mio, e poi la mia presenza non è continua, per nessuno, può cominciare e finire in un punto qualunque».
[23] Cfr. Carl Gustav Jung, Psychologische Typen (Tipi psicologici), Zürik 1959, traduz. ital., Newton Compton, Roma, pagg. 417-418.
[24] Nel procedimento meditativo della narrazione sembra di potersi cogliere un riflesso del pensiero heideggeriano: per il filosofo tedesco, infatti, l’essere non è altro che il pensiero che lo pensa, perché l’uomo che pensa è dentro l’essere.
[25] «… Poi sto lì al buio con la luna sulla spalla quando c’è la luna. Quando c’è il sole sto appoggiato alla ringhiera sul ballatoio. Guardo la mia ombra e l’ombra della ringhiera ai piedi del muro del cortile. Come ieri, per esempio: e mentre ero lì fermo, la mia ombra si è mossa è andata via come una persona che se ne va» (L’amore è niente, cit., pag. 26).
[26] «Quand’è la nostra ora, — dico, — voi state attenti ai fichi, prima di mangiarli apriteli, dentro ci può essere una vespa. Se ingoiate anche la vespa son dolori, guardate cos’è successo sul giornale. Questo fatto della vespa lo racconto spesso, in negozio l’ho già raccontato diverse volte. Ci sono quelli che lo sapevano già e dicono sì sì l’abbiamo letto, che fatalità; e ci sono quelli che ancora non lo sapevano. Lo strano è che tutti chiedono notizie della vespa» (ivi, pag. 25).
[27] «Dato che l’esperimento aveva funzionato, la sera mi sono messo davanti allo Schermo, un po’ arretrato rispetto a mia sorella. Quando è apparsa l’Annunciatrice ho cominciato a stralunare gli occhi. Li facevo ruotare intorno all’orbita, li dilatavo smisuratamente, mandavo le pupille a nascondersi sotto le palpebre. La sera dopo di nuovo. Siamo andati avanti un paio di settimane. Cominciavo a essere stanco. Ma una sera, mentre diceva la programmazione dei due Canali Televisivi, si è tutta sbagliata con le ore e anche con un nome. Ha dovuto fermarsi. Per poter proseguire ha dovuto mettersi a leggere. Mia sorella ha detto ma cos’ha stasera l’Annunciatrice. Io gongolavo. Nessuno meglio di me poteva spiegarglielo, cos’aveva, ma io zitto si capisce. Con lena rinnovata ho ripreso a stralunare gli occhi al modo doloroso e inquietante dei portoghesi» (ivi, pag. 55).
[28] Ivi, pag. 63.
[29] Si veda, per esempio, questo suggestivo notturno torinese: «La luna era ormai tutt’intera nel cielo, un uovo color del rame. Toccando la cima, ha liberato la notte. Centomila funi lucenti si sono sciolte e la collina era un fumo d’argento» (ivi, pag. 4).
[30] Ivi, pag. 33.
[31] Ivi, pag. 35.
[32] «Io faccio sogni che anticipano la mia morte e altri che non significano niente ma anche senza essere incubi paurosi mettono ansia e tristezza» (ivi, pag. 71).
[33] Scrive, infatti, il filosofo tedesco (in Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, p. 60): «L’essere tenuto immerso dell’esserci nel Niente sul fondamento dell’angoscia latente fa dell’uomo il luogotenente del Niente. Siamo così finiti che non siamo nemmeno capaci di portarci originariamente dinanzi al Niente mediante una nostra decisione o volontà. La finitudine scava così abissalmente nell’esserci, che alla nostra libertà è preclusa la finitezza più propria e più profonda. L’essere tenuto immerso dell’esserci nel Niente sul fondamento dell’angoscia latente è l’oltrepassare l’ente nella sua totalità, è la trascendenza».
[34] L’amore è niente, pag. 18.
[35] Ivi, pag. 24.
[36] Ivi, pag. 43.

(Pubblicato in AA.VV., Mario Lattes: narrativa e questioni di cultura, a cura di Loris M. Marchetti, Atti del convegno di Studio del 3-4 novembre 2005, Torino, Fondazione Lattes, 2007. pp. 75-85).

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