martedì 19 aprile 2016

SULLA TRASCRIZIONE DEI DIALETTI


Ombretta Ciurnelli

Il contributo di Francesco Granatiero per una grafia unitaria dei DAM

Nel secolo scorso molti dialetti di piccoli centri privi di tradizione letteraria sono divenuti lingue di poesia, come il gradese di Biagio Marin, il santarcangiolese di Tonino Guerra e di Raffaello Baldini, l’arcaica parlata di Tursi nell’opera di Albino Pierro, quella di Luzzara in Cesare Zavattini, di Caivano in Achille Serrao o di San Fele in Assunta Finiguerra. Nel grande fervore poetico che ha caratterizzato la letteratura neodialettale a partire dalla metà del Novecento si è evidenziata la difficoltà di translitterare parlate locali con caratteristiche fonologiche che in molti casi si discostano notevolmente da quelle della lingua veicolare.
A guidare i poeti nella scrittura di dialetti e lingue minori, per secoli affidati solo alla tradizione orale, sono stati spesso criteri soggettivi, in bilico tra le norme ortografiche dell’italiano, incapaci di rendere tutte le possibili sfumature delle sonorità dei dialetti, e i sistemi di trascrizione fonetica caratterizzati da una dovizia di segni diacritici che risultano spesso poco comprensibili anche per i lettori più volonterosi. 
E così, se sul piano fonico la poesia si è arricchita di un’ampia gamma di ritmi e cromatismi, non è stato facile rendere, attraverso una trascrizione semplificata, le asprezze o il martellante consonantismo di idiomi ruvidi e terrosi o la leggerezza di sinuose dittongazioni e la carezzevole musicalità di altri. In assenza di norme comuni, e sull’onda del “fai da te”, si è generata spesso una confusione sia di accenti e apostrofi, nella volontà di marcare aferesi, apocopi o elisioni, sia di segni diacritici usati nell’intento di riprodurre graficamente particolari fonemi.

Molti sono gli studi in cui sono stati individuati criteri validi e soluzioni scientificamente corrette, ma può capitare che autori di raccolte poetiche nelle note linguistiche dichiarino di optare per soluzioni più vicine all’oralità, diverse dalle norme grafiche concordate, anche nella convinzione che i dialetti non sono un’alterazione o una corruzione dalla lingua italiana. Si veda in tal senso Ida Vallerugo che afferma di scegliere «il sistema accentuativo, […] più vicino all’oralità» e alla sua «intonazione personale che alle norme ortografiche correnti» (Mistral, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2010, pag. 213) o Anna Maria Farabbi che nei versi ldialetto ldiceva lmi babbo e lmi babbo / ce lò ncorpo (il dialetto lo diceva il mio babbo e il mio babbo / ce l’ho in corpo - in Abse, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2013, pag. 56), nella volontà di cogliere la primitività e la fisicità stessa del dialetto, sembra porsi lontano dalle categorie grammaticali della lingua a cui si riferisce la gran parte dei poeti. 
Tra gli studi in materia merita conto di riferire quello promosso dalla Regione Veneto che con una delibera della giunta nel 1994 affidò a una commissione di dieci esperti presieduta dal linguista Manlio Cortelazzo il compito di normare la trascrizione semplificata dei dialetti veneti (Grafia Veneta Unitaria. Manuale, a cura della Giunta regionale del Veneto, Venezia, Editrice La Galiverna, 1995). Nella nota preliminare del Manuale si afferma, tuttavia, che per «far accettare un progetto ortografico non basterebbe nemmeno il forte braccio di un’accademia scientifica o di un decreto ufficiale, anche se si è sognato che “sarìa na bela cosa che ghe fusse un’autorità da tutti riconossua” (Pighi)».

Francesco Granatiero, poeta garganico, autore di numerose raccolte poetiche, da tempo impegnato nello studio morfologico e lessicale del dialetto di Mattinata (FG), così come dei dialetti del Gargano (Vocabolario dei dialetti garganici, Foggia, Grenzi, 2012) e della Puglia (La memoria delle parole. Storia, lingua e poesia, Foggia, Grenzi, 2004), nel volume Altro Volgare. Per una grafia unitaria della poesia nei dialetti alto-meridionali (Milano, La Vita Felice, 2015), nella convinzione che «una grafia dei singoli dialetti che non tenga conto delle altre parlate più o meno prossime e riferibili a una stessa area può sfociare in una babele di scritture» (pag. 5), ha definito i criteri per la trascrizione dei DAM, acronimo che sta per Dialetti Alto Meridionali, parlati in un’area geografica che va dall’Abruzzo alla Campania e alla Calabria settentrionale, dalla Puglia alla Lucania, sino a sfiorare alcune aree limitrofe delle Marche e del Lazio. 
Il percorso seguito appare del tutto originale e inedito rispetto al tradizionale approccio linguistico ai problemi connessi con la trascrizione dei dialetti. Dopo un’agile ed essenziale nota introduttiva, Francesco Granatiero, infatti, ha allestito un’antologia in cui ha ritrascritto, secondo norme scientificamente individuate, alcune poesie di ventiquattro poeti «storicizzati», scelti nell’ambito della letteratura dialettale, a partire dall’Ottocento fino ai giorni nostri, in diverse regioni: Abruzzo (C. De Titta, G. D’Annunzio, M. Della Porta, A. Luciani, U. Postiglione, V. Clemente, A. Dommarco, O. Giannangeli, G. Rosato, C. Savastano), Basilicata (A. Pierro, A. Finiguerra), Calabria (D. Maffia), Molise (E. Cirese, G. Rimanelli), Puglia (F. S. Abbresca, E. Consiglio, D. Lopez, A. Nitti, P. Gatti, F. P. Borazio, L. Angiuli, F. Granatiero), Campania (A. Serrao). Nella premessa sono riportati anche due testi, del romano G. G. Belli (“La vita der Papa”) e del salentino N. G. De Donno (“Muriscju”), come esempi delle aree confinanti, mediana a nord e meridionale estrema a sud, non toccate dallo schwa, tratto linguistico tipico dell’area intermedia dei DAM.
Lo schwa, indicato in fonetica con il simbolo ə, è la e «muta», dal suono debolissimo, quasi impercettibile, che ricorda il timbro vocalico della e atona francese. Il termine deriva dall’ebraico e vale come “insignificante”. Un esempio di schwa si ha nella parola màmmete (“la tua mamma”) in cui risultano indebolite la e della penultima sillaba e quella dell’ultima. Nella trascrizione la e muta è resa dagli scrittori in modo diverso: con una vocale in apice, con il segno diacritico ə, con un apostrofo, con la dieresi (ë), con un corpo inferiore rispetto a quello usato per il testo. Granatiero propone di translitterare lo schwa con la e, soluzione che è stata adottata nel tempo anche da Finiguerra al posto del segno ë.
Come viene sottolineato nella introduzione, «lo schwa rappresenta l’elemento fonologicamente più vistoso dell’eredità angioina nel Mezzogiorno» (pag. 6), dove dalla metà del XIII secolo, nel periodo delle grandi trasformazioni connesse con il passaggio dal latino ai volgari, si instaurò una dominazione le cui tracce sul piano linguistico sono ravvisabili nell’affievolirsi delle vocali atone del volgare pugliese.
Le proposte di scrittura di Granatiero riguardano anche altri aspetti; ci limitiamo a ricordare quelle sull’accento fonico per le e aperte o chiuse, sulla necessità dell’accento tonico in parole tronche, sdrucciole e bisdrucciole, sull’uso della semivocale j in posizione iniziale o intervocalica, sul rafforzamento delle consonanti b e g in posizione iniziale o intervocalica e, infine le puntuali osservazioni sul rafforzamento fonosintattico e sull’aferesi diacronica.
Per tutte le poesie inserite nell’antologia, scelte più che per il valore poetico per la peculiarità di aspetti fonico-grafici, Granatiero ha svolto un’attenta indagine, ascoltando, ove possibile, la lettura diretta degli autori, dal vivo o attraverso registrazioni (O. Giannangeli, G. Rosato, C. Savastano, A. Finiguerra, G. Rimanelli, P. Gatti, L. Angiuli, A. Serrao), o ricorrendo a lettori parlanti lo stesso dialetto dei poeti. Ad arricchire l’antologia sono inserite note biobliografiche sugli autori con puntuali riferimenti alle più importanti antologie in cui sono stati inseriti.

Altro volgare. Per una grafia unitaria della poesia nei dialetti alto-meridionali richiama l’opportunità (o la necessità) di definire scientificamente criteri di scrittura in aree linguistiche che abbiano caratteristiche comuni, anche se non è facile incidere su radicate abitudini personali, su pregiudizi grafici e, infine, sulla libertà “espressiva” che pare sostanziare la natura stessa della poesia, ma che ha senso soltanto come deroga da una regola prestabilita e comunemente accettata.


FRANCESCO GRANATIERO, Altro Volgare. Per una grafia unitaria della poesia nei dialetti alto-meridionali, Milano, La Vita Felice, 2015.

da Poeti del Parco

sabato 9 gennaio 2010

PASSÉTE (PASSATO - USTA)

Granatiero, Passéte

Nota critica di Giovanni Tesio, Interlinea, Novara 2008

In Passéte – traccia odorifera lasciata dal “cacherello” della lepre, in dialetto pugliese; oppure, nello stesso dialetto, passato: aggettivo di lontananza e participio passato di “passare”, indicante il superamento del tratto temporale, dell’azione, dell’età dell’esistenza ormai conchiusi –, Francesco Granatiero configura un io, nel cui discorso poetico aleggiano, insieme, l’ombra onnipresente della morte e le suggestioni evocative di oggetti, di paesaggi e di figure riferibili ad un’arcaica-resistente civiltà rurale, trascinate in un unico flusso ritmico, senza pause o cadute di tensione. Come se le cose, le stagioni, l’amara-dolce terra natale tormentata da caverne, precipizi, inghiottitoi, e le creature convocate nei versi, fossero frammenti sospesi dentro uno specchio spezzato che riflette, delle une, l’illusione d’essere reali e, delle altre, quella d’essere vive.
È la memoria dell’io in cerca di se stesso, insomma, l’oggetto della stilizzazione poetica: una memoria incarnata nell’immagine del cane che si lecca le ferite («nu quéne che ce allécche la frite»: cfr. Secuté), che insegue la “lepre”, metafora a sua volta della vita, ma che, nel momento in cui la scova, non ha il coraggio di ucciderla, come il poeta, in Récchielúnghe, confessa al padre morto: «… – mó, // tatà, cume siasije, / t’u pòzze dice – quédda / nòtte nd’i restucciune, / lu córe nganne, jije / lu uédde, u lèbbre récchie / lúnghe, pegghié l’ammire / quanne me vénne a ttire // chiére sótte la lune, / ma ne mme la sendìje / de préme lu cacciune» («….– ora, // padre, comunque sia, / te lo posso dire – quella / notte tra gli stoppioni, / il cuore in gola, io // la vidi, la lepre orecchie / lunghe, presi la mira / quando mi venne a tiro // chiara sotto la luna, / ma non me la sentii / di premere il grilletto»).
Per questo non si reperiscono, nella stilizzazione inventiva, espressioni del tipo “per sempre”, oppure “definitivamente”, riferibili al distacco netto dell’io dalla propria “orma”, dal proprio “passato”, ma vi compaiono altre forme avverbio-temporali, quali “il dopo” («u ddòppe che m’accappe»), “ora” («mó, // tatà…»), “spesso” («spisse a ttruué reggìtte»), “ancora” («vularrìe rènne angòre»), indicative di una condotta che si ripete e dura nel tempo, che consente all’io di entrare e uscire dallo spazio memoriale, di annusare dentro di sé, in ciò che è stato («dajindre a qquédde ch’è stéte»), e di spostare di continuo l’asse del suo scandaglio fra passato e presente, fra “l’ora” e “l’allora”, fra “il di qua” e “il di là” e viceversa, in un appassionato gioco di sublimi finzioni, nel quale il poeta-artifex, mago della parola, di norma s’impegna per resistere nel marasma insensato dell’esistenza.
Ne viene fuori, quale nota connotativa, un generale effetto litotico, che conferisce all’andamento timbrico-tonale dei versi una velatura di riflessiva levità, ma che, per antifrasi, lascia trasparire il senso di sradicamento, di disagio esistenziale, di strazio interiore, in cui l’io si dibatte. Effetto, che il poeta ottiene proiettandosi, e proiettando i materiali della stilizzazione, nella dimensione aurorale del mito: dell’infanzia memorialmente recuperata, dove tutto rimane per sempre fissato sullo schermo di un’abbagliante-struggente eternità e dov’è possibile “ritrovarsi”, ritrovare le proprie ombre, e rinvenire, nel contempo, un codice linguistico comune che consenta di comunicare con loro – di ricomunicare – al di là del baratro di silenzio scavato dalla morte.
Per rappresentare il suo universo, Granatiero si appronta uno strumento linguistico – il dialetto apulo-foggiano di Mattinata –, in parte attinto dalle profondità della memoria, in parte reinventato su plausibili modelli analogici di scavo glottologico. Si tratta del dialetto, adoperato come lingua della poesia in un verso snello, con rime consonantiche e assonantiche, svariato nei metri (dal settenario all’endecasillabo) e nei toni, già dall’autore definito «na vòuce annatavanne», una voce altrove che gli risuona dentro: guazzabuglio di sequenze vocalico-consonantiche generanti grappoli sonori e allitterativi di una straordinaria, asciutta, scabra musicalità, appreso ai primordi del proprio essere nel reale e nella storia dall’oralità di chi gli ha insegnato a battezzare una volta per tutte le cose del mondo.

Franco Pappalardo La Rosa

Da «l'immaginazione», n. 250, novembre 2009

lunedì 17 agosto 2009

ALFREDO DE PALCHI

Franco Pappalardo La Rosa

NELLA «BUIA DANZA» DELL’ESISTENZA
Appunti sulla poesia di Alfredo de Palchi



1. C’è, in Sessioni con l’analista[1], una sezione intitolata Un ricordo del 1945, i cui tredici monologhi, incastonanti fulminei segmenti dialogici e impostati sul presente storico (che è quello della memoria graffiata dall’artiglio della sofferenza e, pertanto, un tempo riattualizzato), affondano lo scavo nell’irrimarginata ferita che ha dilacerato l’io nel corpo e nello spirito al tempo della sua giovinezza, quando, ingiustamente accusato, inquisito, torturato, condannato e trascinato infine nell’inferno di diverse patrie galere, dovette soggiacere alle brutalità, al sadismo delle guardie, alle privazioni e alle durezze del sistema carcerario.
Come libero ed ininterrotto flusso, più che di memorie, di coscienza, in una dolorosissima, scheggiata confessione di cui l’io sia riuscito finalmente a “scaricarsi” sul lettino di un analista (una confessione, ombrata sì dall’ala cupa della malinconia per il tragico destino toccato in sorte al poeta, ma in nulla cedevole al patetismo dell’autocommiserazione ed anzi scandita con straordinaria sincerità e maschia secchezza d’accenti), Un ricordo del 1945 ripercorre a ritroso la gragnuola delle non metaforiche “sberle”, inferte dall’esistere allo stesso io fin dall’istante nel quale egli è venuto alla luce: il non riconoscimento e l’abbandono da parte del padre, la miseria familiare, le offese di cui è fatto oggetto nell’età infantile dalla gente del paese, i dispetti e le angherie dei coetanei (un malvagio ragazzotto gobbo, per esempio, gli affogò nelle acque dell’Adige l’amato cagnolino[2]), l’educazione alla pratica della violenza quale unico-apprezzato modo per sopravvivere (lancinante, per esempio, il gemito emesso dal coniglio che io-bambino strattonò per estrarre dalla gabbia, tanto da attraversare ancora il ricordo del poeta e da fissarglisi a posteriori nella mente come simbolo del dolore universale degli inermi sopraffatti dall’arroganza della forza[3]).
Le altre sezioni della raccolta, poi, si fanno stilizzazione poetica dell’esistenza concreta, quotidiana – e delle occasioni, degli incontri, degli attimi d’intimità dissipati con le donne amate e perdute – dell’io-protagonista nelle grandi metropoli nelle quali egli, inquietamente, si va trasferendo per consumare al meglio la sua avventura nella realtà e nella storia: Parigi, Barcellona, New York. Quest’ultima metropoli, in particolare, viene scrutata dal di dentro, con la lente d’ingrandimento dell’etno-antropologo, nel caos del suo traffico, nella peste del suo inquinamento, nei miserrimi spettacoli offerti da un’umanità massificata, competitiva, aggressiva, imprigionata in invalicabili muri d’ottusa incomunicabilità («… quest’ora è fretta / – eleganti scorie s’ammucchiano alle vetrine / di manichini asettici ognuno / studia come colpire, ingannare / (il vaccino migliore è lo scambio) / fiuta il passeggio senza fiore o colore / che allegri la vista / si fa largo a colpi di gomito / prende l’incerto per il colletto della camicia / e, affari combinati, / offre la sigaretta / un bicchiere / il pranzo»[4]).
In simile, quasi animalesca giungla di acciaio e cemento, come una belva ferita l’io si aggira, attento, l’occhio vigile che tutto vede, tutto assorbe, tutto ingloba e traduce in crude-allucinate sequenze versiche: da quelle dei ragazzi in giacche di pelle nera, che, per noia o per divertimento, «al chiodo / infilzano / lo scoiattolo intanato nel muro del parco / sborseggiano nelle laterali / agonizzano per il soldo un coltello un’arma»,[5] alle altre che visualizzano sui marciapiedi gli «sputi catarrosi / escrementi di cani / allineati alle gambe lustre delle signore»[6]; dalla fulminea inquadratura degli «uccelli avidi di verde rasentare / la desolazione piatta della muraglia di vetro / tralicci impalcature»[7] alle immagini dei «barboni con bottiglie all’ascella / stravaccati su carta di giornale / intossicati lesbiche ninfomani»[8].
Si tratta di un io, tuttavia, che tende ad atteggiarsi a personaggio e a dichiarare non il proprio disagio di fronte a tanta «desolazione piatta», bensì la propria identificazione con quelle «eleganti scorie» d’umanità che ne attraggono l’attenzione, ne stimolano la sensibilità («chi mi batte la mano / fredda sulle spalle / può sbilanciarmi // fiero di operare alzo / costruzioni sintetiche, / con fiuto e lotta viaggio, vendo / e mi vendo anch’io ricco / di sconosciuti in attesa / che sulla mappa delle usurpazioni perda le rotte / – sèguito la via di finzione…»[9]). E ciò in conseguenza del sospetto, divenuto col crescere dell’esperienza vitale una salda convinzione, che il mondo altro non sia che un grande teatro (o circo), sul cui palcoscenico (o sulla cui pista) ciascuno deve truccarsi, travestirsi, indossare la sua pirandelliana maschera e strenuamente impegnarsi nella “recitazione” della propria parte, per adeguarsi agli altri, per riconoscersi simile agli altri («‘che maschera sono’ / non sono eguale / ‘che maschera porto’ / sono eguale’»[10]) e per non rimanere tagliato fuori dall’immane “spettacolo”: dalla tragico-grottesca pantomima che è l’esistenza. Anche se al lettore accorto non sfuggirà che il discorso poetico si sviluppa, qui come altrove (e l’inciso «sèguito la via di finzioni» ne costituisce inequivocabile spia), nella forma altamente retorica dell’antifrasi dolorante e sublime. Perché le radici dell’invenzione poetica depalchiana rimangono profondamente interrate nell’oscuro istinto di riparo e di difesa nei confronti della violenza, della prepotenza, dell’ingiustizia, dei sensi di colpa, dell’Unheimlichkeit – l’originario spaesamento –, che all’io marchiarono a sangue infanzia, adolescenza e giovinezza e che intatti perdurano nella sua maturità (non a caso, un paio di versi recitano: «in una preghiera di mani / mi sputo l’origine»[11]). Come se quel “marchio”, si è esattamente rilevato[12], abbia da sempre e per sempre costretto de Palchi a vivere un’esistenza “a metà” e da questa “amputazione” gli derivi «il rinnovarsi del trauma – anche sul linguaggio, anche sulla conoscenza – e della nostalgia, ma una nostalgia vuota di appigli, come se l’infanzia e l’adolescenza fossero evanescenti».
L’impasto linguistico – una ganga disadorna, fluida e antilirica – si modella, tanto sul piano stilistico quanto su quello strutturale, su un reticolo versificatorio caratterizzato dalla più assoluta anarchia di un apparato metrico di continuo franto, sintatticamente sconnesso, di forte impronta nominalistica, non di rado punteggiato da forme verbali espressionistiche di derivazione sostantivale o aggettivale («sbracia», «difforma», «sbiscia», «spula», «mi schiara», «si arressano», «mi scabbia», «mi sguscia», «scarnare»…) e assai prossimo all’informale. Esso imbastisce un fraseggio inventivo che astrattizza, asemantizza, riduce cioè ad immagine, le sfilze dei nomina, spesso in nuda sequenza («… laggiù case strade uomini / la delinquenza onorata, volumi di leggi / la città informe, verme che si divora»[13]; «… nelle fondamenta martelli pneumatici / scavatrici chiudono il motore / e ingegneri muratori carpentieri in elmetto / impiegate segretarie agenti della borsa / sodomiti della pubblicità aprono il cartoccio / di panini o si arressano nei ristoranti…»[14]), e dei materiali, di cui fittamente si compone, attinti alle aree più disparate del vocabolario (girandole di res ordinarie, cataloghi di zoologia, emersioni della memoria e dell’inconscio, ombre di sogni, segmenti espressivi, spesso spezzati e ripresi, in uso nelle aree metropolitane, terminologie specifiche dei conflitti interpersonali ecc), mirando essenzialmente, senza tuttavia smarrire la coerenza logica dei significati, alla organizzazione di un plausibile e complessivo significato altro: il sovrassenso del significante.
Per questo il verso, e il testo nel suo insieme, benché sempre di ràpida scorrevolezza e come risucchiato nel gorgo di un vortice, si presenta atonale e deprivato d’ogni ritmicità, con guizzi, abbassamenti ed impennate di suoni che richiamano la musica dodecafonica. Ad alimentare la cui sonorità concorre una serie di accorgimenti tecnico-retorici, all’apparenza casuali, che ne agevola l’intreccio e la variatio dei timbri. Si possono richiamare, in proposito, l’allitterazione («mi mangio maturando», «la lingua lecca la parola», «l’infetta infiammazione», «vicoli viscidi», «origini / ordigni ordini», «magnifiche mani», «verticalità vertiginosa», «sale saliva sangue e seme»), la paronomasia («volto volatile volto al sole») anche ad incrocio chiasmico («il sale del mondo / il mondo sale»), l’anafora regolare («così la frode è priva d’inganni / così la vita viviseziona la vita», «senza quartiere la muta nevrastenia, / senza quartiere i ragazzi…») e quella rovesciata («al mondo che cade / nell’erba che cade / al freddo che cade»), la reiterazione nello stesso verso di gruppi sillabici omofoni («come Meche / come me maschera», «forza rozza», «aguzzi che schizzano», «il passato resta aggrappato», «fiore inodore», «oltre l’uscio lunedì all’una», «i timbrici metallici che timbrano i timpani»), e l’apanodiplosi («leggi malandrine leggi»).
L’insistita presenza, poi, dei baluginii memoriali e degli affioramenti e dei reperti coscienziali e subcoscienziali, insieme con l’allentamento dei nessi sintattico-grammaticali della scrittura e con l’impiego, più che smaliziato, della tecnica del montaggio della frase versica a lacerti, a spezzoni – inconfondibili segni, tutti, di un’ormai avanzata dissoluzione dell’io che in tale linguaggio si identifica e si manifesta –, lasciano intravedere, nell’atto inventivo-stilistico posto in essere da de Palchi in Sessioni con l’analista – e in generale nella sua poesia –, un’anticipazione del processo di svecchiamento dello stantio linguaggio ermetico che, anni dopo, avrebbe costituito il cardine della proposta rivoluzionaria neoavanguardistica.

2. L’universo poetico depalchiano integro già si ritrova, peraltro, con linee forse maggiormente incise dal punto di vista sostanziale, dei contenuti, e più sfumate da quelli, strutturale e formale, della dispositio e della locutio, nella seconda raccolta, La buia danza di scorpione, apparsa nel 1993,[15] ma i cui testi risalgono al periodo 1947-1951: agli anni della detenzione del poeta nelle carceri di Procida e di Civitavecchia, allorché, appena ventenne, egli si scoprì a scalfire sull’intonaco della propria cella i primi versi.
Il senso del rintanamento nel buio e nella notte, dello sprofondamento nel pozzo dell’inconscio, dell’asfissia per la mancanza d’aria nella cella, della resistenza passiva in forme retrattili d’esistenza minima alle ordinarie violenze, agli insulti, alle percosse, affiora netto dai brevi, intensi, contratti componimenti. L’io recluso, in essi, appare raggomitolato in scorze ovoidali per meglio proteggersi, per “lavorarsi dentro”, per tramutarsi in “implacabile finzione” e non cedere, non perdere traccia di sé («Uovo che si lavora nella luce ovale / nuovo adamo / invigorisce nell’altrui simulazione / e quindi anch’io implacabile finzione / anch’io sono…»[16]). L’esistenza diventa in lui cieca vita animale, da talpa, irrimediabilmente circoscritta nell’infuocato e maleodorante “cubicolo” che la accoglie, dove si sfarinano sensibilità, cuore e ragione e nessun’altra percezione è possibile oltre l’”incubo” angoscioso che attraversa ed agita i sonni («Il cubicolo è un forno che trasuda / l’umore di me alle prese con la forza / e l’atto di scontare un vivere / ingombro di spurgo // – cosa serve aggiustare / il perché delle menzogne / l’immensità della pena più grande / di me in questi dintorni / se oltre l’incubo / non so altra percezione»[17]).
In un ambiente dominato dai rapporti di forza, l’io oppone il baluardo estremo della propria ”intelligenza”, che sa intangibile, e alle cinghiate materiali e morali cui è sottoposto dagli “insetti” risponde: «Mi condannate / mi spaccate le ossa ma non riuscite / a toccare quello che penso di voi: / gelosi della intelligenza e del neutro / coraggio aggredito dal cono infesto / delle cimici // – io, ricco pasto per voi insetti, / oltre l’ispida luce / vi crollo addosso il mio pugno»[18]. Anche alle continue offese degli “omuncoli da circo”, la risposta dell’io è metaforica: si paragona ad un lercio animale mai nominato (ma individuabile nei termini che lo descrivono), nel quale, data la similarità di situazioni, egli si riconosce nella comune intuizione della “consapevolezza”, della intelligenza “sgozzata”, e nello stesso lento, inesorabile “rantolo” del morire[19]. Oppure, con una similitudine ancora più stringata, lascia brillare l’immagine dell’agnello che sta per essere scannato, trasparente metafora di chi sia inerme, di chi non abbia “protesta o protezione»” all’altrui bestialità («Ti somiglio nel balzo nel belato / e neanch’io ho protesta / o protezione / – il coltello / che brutalmente ti affascina / alla carotide mi è uno fregio / permanente»[20]).
Del mondo di fuori gli giungono solo echi attutiti, confusi ronzii: come un chiasso primordiale («ovunque mi sparga / chiasso d’inizio odo»[21]); avvezzo al buio, lo scontro occasionale con la luce, cui l’io va incontro “con piedi cercatori / pesanti più che ali d’inverno”[22], gli ferisce gli occhi d’un bagliore accecante (“percepisco / accensioni”[23]),. L’unico scenario che gli è dato di vedere è quello, desolato, al di là delle sbarre di ferro che ne inquadrano il volto («Ciminiere fabbriche / del concime e dello zucchero / barconi di ghiaia e qualche gatto / lanciato dal ponte…»[24]). In simile condizione esistenziale e psichica, il passato del “recluso” si fa sempre più distante, riemerge a tratti, per straniti e disordinati lampi di coscienza, e sùbito si allontana nei ricordi o negli incubi («Al calpestìo di crocifissi e crocifissi / sputo secoli di vecchie pietre / strade canicolari / il pungente sterco di cavalli immusoniti / in siepi di siccità // – al gomito dell’Adige allora crescevo / d’indovinazioni rumori d’altre città – // e sputo sui compagni che mi tradirono / e in me chi forse mi ricorda»[25]; «Non più / udire il tonfo dei crivellati nel grano / urli di vecchie bocche e di bestie / negli incendi e bui guazzi / dell’Adige // vedere un branco di vili osservare / chi s’affloscia al muro / il camion che di botto lascia al lampione / chi fa le boccacce con eloquente / groppo di lingua»[26]); mentre il domani, le speranze di “una vita dissimile”, gli appaiono come una pallida nebulosa distante più della luna («Aggiusto lo sguardo riconto gli anni / anni ingannati pentiti regalati / alla famelica babilonia // se il domani fosse certo potrei forse / sostenere il morso / in me che segregato non indovino quale / luce mi darà vigore – / intanto in questo cubicolo / mi mangio maturando e sulla pietra / raspo per una vita dissimile»[27]).
L’esistenza dell’io non può che rapprendersi, allora, nel breve spazio del “cubicolo” dov’è imprigionata, nel «muro circolare che imprigiona la luce / essudata d’un olio buio»[28], e, in tale àmbito, rastremarsi ai soli elementari atti del vedere, dell’udire, del percepire, dell’avvertire odori, sensazioni, bollori del sangue, cupi franamenti del cuore. Il corpo sembra diventare il centro focale e la misura d’essere dell’io. Il quale lotta disperatamente con se stesso per controllare i propri deliri, le proprie smanie, i propri istinti autodistruttivi («Una mosca adolescente bruisce / sulla gamella calda di zuppa / annunziando l’infezione / e gira l’orlo come sulle labbra / di me che sogno di uccidermi»[29]). La follia è in un’ombra oblunga sulla parete della cella, nella civetta sulla palma del cortile che «stride / per il topo che sono»[30], nel pezzo di pane che sa di petrolio[31], nel lepidottero che sbatte le ali contro il vetro della finestra[32], nell’«io fuori di senno»[33] che resiste e persiste nella sua «buia danza / di scorpione»[34].
Tutto l’universo interno al “cubicolo” si miniaturizza, pian piano, si popola di una moltitudine di inquietanti piccoli animali (cimici, mosche, topi, vermi, ragni, lepidotteri, il notturno e araldico scorpione ecc.) che fanno compagnia all’io, anch’egli ridotto alla stregua di «animale seviziato» (come altrove egli si definirà), che ne attraggono l’attenzione e gli impediscono di sprofondare nel tunnel senza sbocco della demenza totale. Ed anche l’universo “di fuori” si rimpicciolisce, concentrandosi in una visione apocalittica e, al contempo, cosmica, di sofferenza assurda, senza scampo, senza misericordia («Si abbatte il pugno / sul totale formicolio / della natura – è / sofferenza questo gesto / nella vorace indifesa / degli insetti e / di me»[35]).

3. Si noterà come il fraseggio poetico di La buia danza di scorpione sia riconoscibile: sia già inconfondibilmente depalchiano. La parola vi si presenta spoglia, scabra, aguzza, impregnata di realia, di sostanza di cose, e i nomina delle res sono già tramutati in immagini, sono già adoperati come portanti strutture metaforiche. Gli snodi sintattico-grammaticali risultano allentati, in un discorso paratattico e asindentico (benché quasi del tutto privo dei segni d’interpunzione che connotano paratassi e asindeticità), che rifiuta gli orpelli del lirismo e che fonda i suoi statuti sul cemento di un realismo aspro, essenziale, tutto teso non a “cantare”, ma a significare la sostanza dell’inumana esperienza che l’io poetante si trova a vivere nonché il trapano delle sofferenze, dei pensieri, delle ossessioni, delle angosce, del frenetico farneticare, che ne perfora la mente. Tutto ciò avveniva – occorre ricordarlo – in una resistente ed epigonica stagione ermetica: un merito non piccolo e di non poco conto da ascrivere a favore dell’invenzione poetica di de Palchi.
Nella successiva Costellazione anonima[36], lo spazio inventivo di questa poesia si amplifica: smargina dal dato personale per dilatarsi fino ad inglobare l’intera condizione umana («e più oltre, / vedo me, uomo // la sua angoscia di animale / di sentore mortale / di mente s-centrata // che in una stretta si uncina e sulla sabbia / flotta il “Verbo” semplice, / gira sul proprio sangue e si inginocchia / a vedere la finale malevolenza / di sé, uomo sbilanciato dalla voragine / desolata della terra promessa»[37]). La corruzione, l’odio, la follia, la violenza, la vanità, la solitudine, l’ipocrisia, l’incapacità di comunicare con l’altro acquistano valenze rappresentative cosmico-universali, nelle quali l’evoluzione si delinea come astuta impostura, mistificatorio inganno. Non c’è progresso, nell’evoluzione, bensì finzione di progresso, ossia una pietrificata fissità: dal regno animale alle più complesse forme di vita fino all’uomo, l’esistere nell’universo non è che sciocca illusione, poiché si fonda esclusivamente sulla messa a punto di sempre più raffinate, ma sostanzialmente brutali, tecniche di sopraffazione tese ad assicurare la sopravvivenza delle varie specie.
La storia stessa non è che la “favola bella” – la frottola – propalata da un potere che sempre meglio si organizza per distruggere, per schiacciare, per nientificare l’individuo più debole; essa, pertanto, non si configura come progresso, ma, al contrario, come regressione verso il trionfo dell’istinto bestiale, in cui l’esistere nella realtà si riduce a heideggeriano Sein zum Tode: ad un mero, banale, destituito d’ogni senso, esserci per la morte. De Palchi lo fa rilevare senza troppi giri di parole, là dove traduce in sintesi poetica la sua centrale idea speculativa: «Come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti – sotto ogni foglia al suolo si appicca / una lotta d’insetti e dovunque / di sopravvivenza: del topo del coniglio / del falco che assalta planando / del ragazzo beccaio di ferocia allegria / che bastona il bue e con ingordigia di potere / urla ora ti ammazzo»[38] (altrove puntualizzerà – e la sua sarà una lucida, amarissima constatazione –: «la paleontologia annulla le menzogne storte / bisogna uccidere e la selezione / espediente non del più forte / o intelligente / ma del più scaltro / decide»[39]).
La realtà quotidiana, d’altronde, gliene fornisce una miriade di plausibili prove nel suo continuo scandirsi lungo il diagramma della prepotenza, della sopraffazione demente e della mors tua vita mea: dalla catena della violenza, che via via si va spostando, non dal più al meno intelligente, ma dal più forte e scaltro al più debole e inabile a difendersi («Il triangolo d’alberi e panchine / tra le due vie è battaglia demente // di notte sempre di notte – luce / è invenzione – il ragazzo malmena un vecchio / il vecchio frantuma una bottiglia / sulla testa del cane / il cane intelligente, non scaltro…»)[40], all’odio becero di chi al sangue e alla morte sia avvezzo («Hanno sparato al negro / in un negozio di erbivendoli, / frizzante la testa di crespo / poggia in una cassetta / di pomodori / – Ha rubato soldi dalla cassa / – borbotta la calca ed io intuisco / nella tasca di chiunque / l’indice lesto sul grilletto. // Scrollo le spalle che mi fanno male / pensando al cozzo nelle sue e alla faccia / di scarnati pomodori / – È sangue? – / – Eh, è un nigger – / osserva un bagonghi»[41]).
Sicché, costretto ad arrendersi all’evidenza e alla preminenza del male nel mondo, l’io poetico cerca di reagire come può, di adeguare, per non soccombere, il proprio comportamento alla legge della foresta. Dove prevale il marasma della follia, spadroneggia, infinta nelle apparenze d’una imperturbabile indifferenza, la narcisistica dismisura di un egocentrismo alimentato dal godimento dell’altrui soffrire, e la parola (anche e soprattutto quella poetica), ormai raggrumata nel gelo e nel silenzio dell’incomunicabilità, non trattiene più, là dove per avventura venga pronunciata, alcun apprezzabile significato: è vana eco di suono, insulso e disarticolato flatus vocis o, come meglio dice il poeta, «è morte vivente in noi»[42]. Per questo egli l’adopera, evidente segno della pietas che gli attanaglia cuore e cervello, nell’unico modo in cui sia ancora possibile restituirle un residuo margine di significanza: nel ribaltamento verbale di senso leggibile attraverso il costrutto per antifrasi («… il mondo sorride sotto il pugno / noi abbiamo scelto di non piangere non / aiutare ma guardare altrove / quando s’incontra il tramortito / e di passare con l’indifferenza / che si ha per l’animale travolto / dalla macchina o dall’arma – / è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso»[43]).
In pieno si coglie, nei componimenti della raccolta, il deformante controsenso del sarcasmo e del paradosso antifrastici con i quali de Palchi sintetizza – e, per il tramite dell’aguzzo strumento dell’artificio verbale manovrato in maniera davvero magistrale, traduce in implacabile giudizio critico-poetico – lo squallidissimo quadro tragico d’insieme che, in conseguenza del devastante impatto della fenomenologia del reale sulla sua identità psicologica, quella fenomenologia dentro gli compone. Ecco, allora, “esplodere” nei versi le rappresentazioni visionarie e cosmico-apocalittiche di un universo di detriti e polveri che avvolgono, che soffocano, che seppelliscono ogni forma di vita e la rimescolano al ritornante, putrido fango del caos primordiale («Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno / su me un cadere continuo di polvere dal soffitto / sul letto tappeti bottiglie dalle pareti / che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere / già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa / polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa / e intorno il sistema termonucleare come me cadavere / che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto / dal mio centro intorno me stesso: / costellazione anonima»[44]).

4. Forse, lascia trapelare il poeta, la salvezza può rinvenirsi unicamente nell’amore per la donna, punto di sutura di due esistenze e di due anime, che costituisce un «ritorno sicuro dove il primo seme / mi chiude una volta gli occhi / per riaprirli su te»[45] e dove «nella polvere il sangue si coagula e indietreggia / alla nascita»[46]. Lo spirito bruto infuso nella scrittura inventiva depalchiana si scontra, dunque, con un manifesto desiderio di ordine e di chiarezza; nell’io sembra farsi strada un moto sublimante verso qualche principio di cauta apertura alla compromissione con idee platoniche (o costruttivistiche), in grado di offrire e di garantire un plausibile significato, qualunque esso sia, alla presenza sua e del suo destino sulla scena del mondo. L’amore può fare il miracolo, può conciliare l’io con il sé autentico, aiutandolo ad accettarsi, a riconoscersi – ad “individuarsi” avrebbe detto Jung[47] – per quello che nella più intima essenza egli in effetti è («amore, scendo a trivello nel pozzo / ti chiamo nel sonno molestato / da disordini ed avversioni, / anch’io listato di offuscamenti e disagi mentali»[48]).
Senonché, anche nella direzione di questa apertura prospettica, l’io finisce col ritrovarsi effimero, “s-centrato”, in stato di quasi Seinvergessnheit[49] – di dimenticanza dell’essere –, capace di mimare storia e natura, di riprenderne gli schemi, di contenerli e di immobilizzarli entro le strutture versiche e strofiche, magari di ricostruirli con un gioco persino allucinato in un nuovo vocabolario, in un aggiornato repertorio di immagini, di ritmi, di scansioni sonoro-ecolaliche, di apparati tecnici e stilistici[50], ma non di trarsi fuori e di sentirsi affrancato dal risucchio dell’orrido buco nero dell’angoscia, della banalità, della contraddittorietà, del paralizzante non-senso esistenziale. Finisce soprattutto per attestare una concezione dell’amore, in cui il rapporto con la donna viene inteso non tanto come stilnovistico movimento sentimentale nei confronti di una creatura angelicata, discesa per lui da “cielo in terra a miracol mostrare”, o a favorirne la salvazione umana e spirituale, e neppure come pretesto, di marca romantica, per il tramite del quale affermare ed esibire (sotto le mentite spoglie dell’esternazione della tenerezza, degli slanci tumultuosi del cuore, del fuoco ardente della passione ecc.) una personalità tutta intenta a specchiarsi nel lago fatato dei propri patimenti d’amore, quanto piuttosto, molto più concretamente, come inquieta-oscura ossessione per il corpo, per le membra, per le parti intime, per il sesso della donna (ad ammetterlo è lo stesso io, là dove egli recita: «ogni oggetto animato o inanimato è donna, / la fogna luminosa dove sta in agguato il mio sesso / di topo ossessionato»[51]), palesata con un linguaggio, sì, talora involto nel velo (litotico) della metafora e dell’iperbole, ma assai spesso crudo e violento.[52]
È una concezione dell’amore, quella che intride la poesia depalchiana, complicata oltre tutto dall’intrusione di non pochi elementi antropologico-culturali e psicoanalitici. Perché vi s’intrufolano, da un lato, spunti di una religiosità echeggiante quella cristiana (in realtà, è pagano-misterica), nella quale il corpo della donna assume configurazioni di «sinagoga» («e ho nostalgia di me / dentro il tuo corpo / sinagoga»[53]), o di tempio, anzi di recesso del tempio – di «altare / tabernacolo / messa del mio cibo»[54] –, al cui interno, da umile fraticello, l’io amante-poetante recita le sue devozioni, compie i suoi riti celebratori e sacrificali, e si «santifica»[55] («Mi pieghi e da francescano prego sul tuo corpo»[56]; «Mi spezzo, come il pane alla cena, / e dissanguo, come offerta di vino…»[57]; «per il tuo corpo incolume / sono lo sposo della mensa / adorato ogni giorno in ginocchio»[58]; «e come un frate in preghiera / m’inginocchio all’arcata a consumare devotamente / l’ostia / che brilla dall’ostensorio ed ansa / a tubero d’orchidea»[59]); e, dall’altro, vi si innestano tracce e scorie, mai del tutto cancellate, mai del tutto depurate dal filtro della coscienza, affioranti dai cupi e intricati fondali dell’inconscio: la donna, il corpo della donna, con i suoi umori, le sue “pianure irrigate d’acque tributarie”, le sue membra dove scorrono tiepidi flussi, poco a poco si trasmuta in fiume, nell’amato Adige dell’infanzia, che acquista, a sua volta, poetica fisionomia materna («e tu da madre terraquea / chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora / del grembo»[60]; «solida di sali e di spore, / sei l’acqua dell’origine che sporge / la tetta gonfia di maternità / e non flagella…»[61]). Smemorandosi in lei, rientrando nelle sue morbide acque come dentro un nido (o una cavità endouterina) sicuro e protetto, è forse possibile risolvere definitivamente il disagio, il male di vivere, le perenni incertezze, la sofferenza d’essere e di durare, e realizzare la restituito in integrum dello «spirito in frammenti»[62].
Ma anche questo sogno di fuga dalla realtà, dalla storia, dalla trappola della vita che impone le sue “regole”, appronta i suoi trucchi, dissemina i suoi infidi agguati, sottoposto al vaglio e alla critica della ragione, palesa la propria natura di chimerica fantasticheria, di “non luogo” (oύ τóπoς): di vagheggiamento utopico (non dissimile, peraltro, dal vagheggiamento utopico, che l’io aveva già confidato ad uno dei testi di Costellazione anonima: «… forse arriveremo all’origine / al pezzo di terra dove sarò l’indiscreto / giudice di me stesso, non muri / non leggi, tutto aperto, / porte finestre letto, / dove nessun altro fango su due gambe / giudicherà»[63]). L’istanza di regressione al caos dell’indistinto, del primordiale, del vitale, nel profondo dell’io ritorna così a prevalere, con tutto il suo pesante carico di disperazione: l’”anarchico” protagonista dell’invenzione poetica di de Palchi sa che l’ossessione sessuale, scatenando i più elementari istinti, accomuna l’uomo – e, al tempo stesso, lo degrada – a qualsiasi altra specie animale. Coerentemente con la propria concezione del mondo, egli si rende soprattutto conto che l’erotismo, l’amore fisico, il rapporto sessuale con la donna apparecchiano e nascondono, anche nei momenti di più sublime abbandono, l’insidia di catturare l’individuo nella morsa delle ferree leggi della natura volte alla perpetuazione della specie, che costituiscono un invalicabile limite alla sua libertà, una subdola prevaricazione della sua volontà.
Il minuzzolo di speranza, che si era fatto strada a partire dalle Viziose avversioni (1951-1996) e che aveva formato il leit-motiv della più recente produzione poetica depalchiana fino alle Ultime (2000-2005), non può non rivelarsi, pertanto, che un’illusione di tipo leopardiano[64]: l’incontro amoroso-sessuale fra uomo e donna sfuma in una concezione dell’erotismo come violenza reciproca dei corpi, coinvolti in un’epica di tormento e di lotta agonica, le cui punte di degradazione rasentano, per forza immaginale ed espressiva, quelle veementi che potrebbero rappresentare i corpo-a-corpo delle antiche battaglie («folgori di luce aspra sulla fronte, / un taglio di sangue, / non c’è prezzo per la tua violenza / consona alla mia…»[65]; «scàgliati nell’abbraccio e tu anche spèzzati / nell’albume senza interrompere lo scontro / che soccombe alla dinamica ferocia / del tuo esule grembo stracolmo / e fertile come un campo di gramigne»[66]), e dove l’io-scorpione, divenuto di volta in volta ratto, topo, talpa – comunque, «animale braccato che si spacca»[67] –, continua la sua “buia danza” nel marasma insensato dell’esistenza.


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[1] Milano, Mondadori, 1967. Ora in Paradigma – Tutte le poesie: 1947-2005, Milano, Mimesis-Hebenon (con premessa editoriale di ROBERTO BERTOLDO e presentazione critica di ALESSANDRO VETTORI), 2006. I richiami nelle note fanno riferimento a questa edizione.
[2] «… Non sai che / dopo una sovente cena di aringa / mani tagliuzzate, nere di ruggine acidi unti / imparo il disegno industriale / il volino e l’altrui invidia per la borsa di studio, / non sai delle mie colluttazioni con i compagni / per l’esistenza animale – del gobbo Toni, / dal ponte, che mi getta nell’Adige / il cane a zampe legate / uno straccio nella bocca –» cfr., nella sezione Bag of fliers (New York 1961), il componimento di p. 112, in Paradigma, ediz. cit.
[3] «… direi una reale / storia ma diversa / – e del coniglio – / sotto la tettoia di zinco / ondulata nel cortile: // lo tolsi dalla gabbia per le zampe / posteriori, il taglio / della mano (debole) colpì; / il suo lamento di bambino chiuso / – ancora mi è vivo…»: cfr., nella sezione eponima, il testo di p. 142.
[4] Cfr. il componimento n. 1 della sezione Reportage (New York 1957), in op. cit., p. 118.
[5] Cfr. componimento n. 4, ivi, pag. 122.
[6] Cfr. componimento n. 2, ivi, pag. 119.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Componimento n. 8 della sezione eponima della raccolta, in op. cit., pag. 151.
[10] Cfr. il frammento centrale di pag. 73 nella sezione Carnevale d’esilio di La buia danza di scorpione, ivi.
[11] Cfr. il testo n. 9 dell’omonima sezione di Sessioni con l’analista, cit. (pag. 151). Origine, peraltro, che è quella, dal poeta considerata tragica, del proprio concepimento, già emblematizzata nel breve componimento d’apertura di La buia danza di scorpione, ivi (pag. 34): dell’attimo in cui «l’abbietta goccia […] spacca / l’ovum / originando un ventre congruo / d’afflizioni». Un riferimento all’origine affiora anche nelle frequenti immagini d’acqua – l’acqua dell’Adige –, che richiamano il primigenio liquido amniotico nel quale, dopo il concepimento, l’essere si trova a galleggiare nel tempo della pre-nascita. All’origine, inoltre, va collegato l’affettuoso componimento che apre la sezione (intitolata L’assenza) di Paradigma 1950-2000, Marina di Minturno, Caramanica, 2001 (ora nel volume complessivo cit.), dove il nonno materno – «che mi fu padre e visse anarchico» – è colto nei momenti più veri della sua misera ma estrosa esistenza, tra i quali due in particolare spiccano: quello in cui il poeta bambino andava a spasso sul telaio della bicicletta guidata dell’anziano congiunto: «… A sera i ginocchi / non rotano, sente il diabete nelle gambe; / la bicicletta scansa i fossi / della provinciale – ed io curvo, / metà oltre il manubrio, annuso il fanale / a carburo; lui sbuffa / e mi canta con raucedine sulla nuca la puzza / di vino e il Barbiere di Siviglia» (pag. 302); e l’altro, dedicato agli istanti estremi della vita di quegli: «E nello stesso letto, inventando / versi che nessuno scrive / e mi dice, mi protegge / all’ascella che sa di pelo e sigaro; se lo mangia / vivo nelle mie braccia smilze / e smerdate il cancro, e in pena schifosa / si fiata – e ha il tagliente sorriso / d’un gatto / morto» (pag. 303).
[12] ROBERTO BERTOLDO, Leggere Alfredo de Palchi, in AA. VV., Scritti sulla poesia di Alfredo de Palchi con inediti dell’autore, Burolo, I quaderni di Hebenon, 2000, pag. 39.
[13] Cfr. la chiusa del testo n. 9 della sezione Un ricordo del 1945 di Sessioni con l’analista, cit., pag. 112.
[14] Cfr. il testo n. 1 della sezione Reportage di Sessioni con l’analista, cit., pag. 118.
[15] Riverside (California), Xenos Books (traduzione inglese – The Scorpion’s Dark Dance – di SONIA RAIZISS). Ora in Paradigma-Tutte le poesie…, cit.
[16] Cfr. il componimento Uovo che si lavora nella luce ovale, nella sezione Carnevale d’esilio, ivi, pag. 62.
[17] Ivi, pag. 74.
[18] Ivi, pag. 63.
[19] «Ti si offende – si insiste a dire / che t’ingrassi nello sterco / ma io so qual è / la verità: segui l’obbligo della / condizione / – tolto dal trogolo / corda al muso oblungo non hai diritto, / resiste l’intuizione quella consapevolezza / ma sei rattenuto / malmenato sulla cassa rovesciata / e ti si sgozza l’intelligenza / mentre il sangue ti sballotta / e mi sballotta in rantolo»: è il componimento Ti si offende – si insiste a dire, nella sezione Il muro lustro d’aria, ivi, di pag. 95.
[20] Ivi, pag. 94.
[21] Ivi, pag. 36.
[22] Ivi, pag. 43.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, pag. 41.
[25] Ivi, pag. 56.
[26] Ivi, pag. 51.
[27] Ivi, pag. 82.
[28] Ivi, pag. 61.
[29] Ivi, pag. 90.
[30] Ivi, pag. 79.
[31] Ivi, pag. 71.
[32] Ivi, pag. 44.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem. Secondo un’antica leggenda popolare, ripresa poeticamente da DE PALCHI nella sezione Fungo amletico della raccolta Paradigma – 1950-2000 (cfr. il breve componimento n. 29, a pag. 322: «in un cerchio di fuoco / anche lo scorpione / piantandosi l’aculeo in testa / è suicida»), lo scorpione, quando si vede perduto nell’assedio delle fiamme, si autoelimina.
[35] Si abbatte il pugno, ne La buia danza di scorpione, ivi, pag. 46.
[36] Riverside (California), Xenos Books, 1997, traduzione inglese – Anonymous Constellation – di SONIA RAIZISS, versione originale italiana, Marina di Minturno, Caramanica, 1998. Ora in Paradigma-Tutte le poesie…, cit.
[37] Ivi, pag. 184.
[38] In op. ult. cit., pag. 213.
[39] Ivi, pag. 215.
[40] Ivi, pag. 218.
[41] Ivi, pag. 209.
[42] Ivi, pag. 221.
[43] Ivi, pag. 210.
[44] Ivi, pag. 203
[45] Ivi, pag. 231.
[46] Ibidem.
[47] Cfr. CARL GUSTAV JUNG, Psychologische Typen, Zürich 1959 (Tipi psicologici, traduz. ital., Newton Compton, Roma 1970, pagg. 417-418).
[48] Cfr., ne Le viziose avversioni (Riverside, Xenos Books, 1999, traduzione inglese – Addictive Aversions – di SONIA RAIZISS ed altri), il testo poetico il cui incipit è La combustione cristallizzata del cuore, in op. cit., pag. 266.
[49] Il termine è heideggeriano: cfr. MARTIN HEIDEGGER, Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, pag. 155.
[50] La poesia di de Palchi risulta tecnicamente organizzata in modo da lasciarne risaltare, pour l’oeil, i valori plastico-formali delle strutture versiche e, pour les oreilles, quelli fonetici delle parole: essa mirabilmente si presta, pertanto, ad una recitazione orale, che permette al significante fonetico di abbattere i lacci oppostigli dal significato.
[51] Cfr. la chiusa del componimento il cui verso incipitale è Il vento sibila tra lo steccato e batte, ivi, pag. 250. Ma se ne leggano, nella linea indicata nel testo, le seguenti altre “ammissioni”: «quello che m’intuisce / è la tua coscia felice; la notte abbrevia / il calore al suono della sveglia / e mi alzo orbo: talpa / vivente nel buio nel tunnel del corpo / nutrito dalla coscia» (cfr. la sequenza versica n. 5 della sezione Momenti, ivi, pag. 235); «sono il fiato che scotta il taglio rosso / la verticalità vertiginosa; / sono la lingua / che flessibilmente accede per le cosce guizzanti / come carpe…» (cfr. i versi centrali del componimento che principia con Potessi scatenarti nella camicia da notte i fianchi, in Paradigma, cit., pag. 342); «la torcia ti genera la vampa / delle cosce, penetra toccando ogni atomo / ti squassa nelle viscere / un potente orgasmo / con il bene e il male; / ora in te tutto riposa / con me sulla tua pelle» (è la chiusa della sequenza versica n. 8 della sezione Momenti di Le viziose avversioni, cit., pag. 238); et similia.
[52] L. FONTANELLA, nel suo fondamentale studio La parola transfuga. Scrittori italiani in America (Firenze Edizioni Cadmo, 2003, pp. 230-231), evidenzia come, nella poesia depalchiana, «l’eros appare, di fatto, in tutta la sua gamma espressiva, non soltanto, cioè, nella variegata geografia psicologica che l’accompagna: dalle gelosie agli inganni, agli scherzi proibiti(vi), alle spasmodiche attese, alle nostalgie, alle rabbie, alle smanie, ai godimenti sadomasochistici, di cui abbiamo tanti esempi nella classicità latina […]. Ad una tale sete di tensione vitale non può che corrispondere, inversamente proporzionale, quale correlativo rovesciato, una pulsione di morte. La costellazione obbligata di eros/tanatos trova in non poche di queste pagine (e ancora più troverà in Essenza carnale, ancorché in uno stato proiettivo), la propria irrisolta, angosciante rappresentazione. Dietro i vetri lattiginosi di un motel, di un’umida stanza poco illuminata, c’è tutto un mondo di angosce incomunicate, la melanconia planetaria di una struggente solitudine, la disperazione di un uomo solo. La morte come antidoto all’eros assurge sì […] “a simbolo di forza vitale e appiglio contro la solitudine e il silenzio” [,,,], ma rappresenta anche, in modo irriducibile, fino all’estenuazione vitale, una sorta di cupio dissolvi dove tutto si annulla, come in un tourbillon allegro e tragico insieme».
[53] Cfr. la chiusa del componimento che inizia con il verso Quanto dannarmi, ivi, pag. 258.
[54] Sono i versi successivi all’iniziale di Mi pieghi e da francescano prego sul tuo corpo, ivi, pag. 268.
[55] Per il tramite dell’incontro sessuale con il corpo della donna, l’io resiste all’«angoscia di esistenza e santifica / il significato di uomo»: cfr. il componimento che inizia con il verso Sempre il momento di rinascere, ivi, pag. 264. Si legga, in proposito, l’acuto rilievo di ROBERTO BERTOLDO (in loc. cit., pag. 41): ”Il corpo sinagoga” «è il mondo – ossia de Palchi fuori dalla donna – la poesia, “scodella di cancro / e ciste…”. Il mondo è la poesia, il corpo della donna la religione. L’evasione, o la salvezza, non è quindi nella poesia, che è invece il luogo della speranza, dell’attesa, del dolore, ma nella donna, nel suo corpo. La poesia di de Palchi non è dunque una poesia lontana dalla realtà, anche se è realtà, spesso emblematica, dell’io».
[56] Cfr. l’attacco del componimento citato nella nota n. 53.
[57] Cfr. il componimento, il cui verso incipitale è Mi, della sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 358.
[58] Cfr. il componimento che inizia con il verso Sono il dilemma, ivi, pag. 344.
[59] Cfr. il componimento che incomincia con Dammi la voce sommessa del grembo perch’io parli, ivi, pag. 360. Altrove, il linguaggio poetico si fa più diretto ed esplicito: «in ginocchio dal peso delle colpe / ti divoro la verticale spoliazione di barbara / con l’intenzione di uscirne illeso / alleggerito dalla benedizione del portale» (cfr. il componimento che comincia con Orecchio il silenzio di quella sedia, ivi, pag. 339); «Sono il tuo sacrificio / l’agnello / perenne che infiora di leccate le colline / e le pianure irrigate d’acque tributarie / che placidamente scendono il corso per buttarsi / con me a precipizio / nella caverna delle tue illuminazioni» (cfr. il componimento che ha come primo verso Sono il tuo sacrificio, nella sezione Ultime di Paradigma, cit., pag. 384); «… ma perché allora / questo sussulto questo / piegarmi in ginocchio davanti alla perfezione / del triangolo che si esprime a segnali» (cfr. il primo componimento, il cui verso iniziale è Giallo, della sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 338); «e tu, monacale, divarichi le carni ustionate, / e con la bocca saturnina piena di lingua che serpeggia / lucifera / avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato / vinto con la religione della tua essenza / carnale» (cfr. il componimento che inizia con Sono il dilemma, ivi, pag. 344). Sul punto, MARIO MARCHISIO (La carne interrogata, in La chiarezza possibile – Esperienze letterarie, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pag. 167) perspicacemente annota: «Credo […] che non sia azzardato indicare nel sadomasochismo il collante di questo universo poetico, indagato e scrutato da un Torquemada del sesso il quale cerca di strapparne il segreto con ogni mezzo. Inutile aggiungere che lo svelamento non si realizzerà, sancendo il trionfo della tortura senza fine, del deserto insaziato e dell’inferno della mente».
[60] Cfr. il componimento che inizia col verso Un’arcata di prosodie carnali, nella sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 355.
[61] Ibidem.
[62] Ibidem.
[63] Cfr. la chiusa del componimento, il cui primo verso è Lo strumento che erode la vita, in Costellazione anonima, ivi, pag. 207.
[64] Del Leopardi di quei testi poetici, in cui maggiormente il maglio pesante della ragione disintegra tutto quanto il fuoco del sentimento a fatica riesce a generare e ad alimentare; del Leopardi anche di una delle sue metafisiche riflessioni affidate alla prosa delle Operette morali, nella quale ricorda «che l’uomo non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita».
[65] Cfr. il componimento n. 9 della sezione Mutazioni di Le viziose avversioni, ivi, pag. 290.
[66] Cfr il componimento che inizia col verso Sono il simbolo, nella sezione Essenza carnale, cit., pag. 352.
[67] Cfr. il componimento, il cui incipit è Questa neve m’indietreggia, in Costellazione anonima, cit., pag. 206.


(Pubblicato in AA.VV. Alfredo de Palchi, La potenza della poesia, a cura di Roberto Bertoldo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 11-25; poi in Franco Pappalardo La Rosa, Il fuoco e la falena. Sei poeti del Novecento, ibidem, 2009, pp. 61-83)

venerdì 14 agosto 2009

MARIO LATTES

Torino, 10 ottobre 2008, Biblioteca civica «Villa Amoretti», Franco Pappalardo La Rosa presenta il libro di Francesco Granatiero, Passéte (“Passato”/“Usta”, postfazione di Giovanni Tesio, Novara, Interlinea, 2008)


Franco Pappalardo La Rosa

L’“OMBRA” E GLI SPECCHI:
LA DISINTEGRAZIONE DELL’IDENTITÀ
DEL PERSONAGGIO-IO NEL ROMANZO
L’AMORE È NIENTE


Il protagonista, io-narrante in prima persona, del romanzo breve di Mario Lattes L’amore è niente,[1] è un piccolo borghese “inetto”, un uomo “senza qualità”. Di sé quest’io non dice il nome, preferisce rimanere anonimo, perché «può sempre esserci qualcuno che se ne serve per farci del male. Dire un nome può portare molta disgrazia».[2] Proprietario di un negozietto di ottica ereditato dal padre, sta personalmente al bancone della vendita degli occhi artificiali (più che altro, trascorre il tempo a modellare teste di conoscenti con la plastilina e ad applicarvi gli occhi di vetro); lascia, invece, che a servire le montature e le lenti per gli occhiali ai rari clienti provveda il commesso Fumel, con il quale intrattiene un rapporto ambiguo: gli affida, sì, l’intera gestione dell’attività commerciale, però lo teme, ne sospetta presunte trame e sotterfugi intesi a sottrargli la titolarità del negozio («Lo venderò, il negozio? O il Fumel ha già tramato per diventare lui il padrone? Del Fumel non mi fido, non c’è da fidarsi…»).[3]
Come confessa, egli non ama, non ha mai amato, il suo lavoro; con gli anni gli è diventato insopportabile. Le motivazioni che ne fornisce sono tipiche dell’“inetto”: «Non che sia faticoso questo no, mi lascia molto tempo libero. Ma tutti i giorni alzarmi vestirmi e la faccia di Fumel… Che cosa mi prepara costui? Vuole godersi la mia rovina e impadronirsi del negozio? Faccia pure, se lo merita, anche la cattiveria va premiata quando è tanto tenace».[4] Parimenti, non ama se stesso («Spesso non mi capisco, non mi sono mai capito, vorrei essere un altro»[5]) e, benché sia convinto di risultare istintivamente antipatico alla gente, è lui, in verità, a non sopportare il prossimo (una sua riflessione: «Io il binocolo me lo comprerò sì un giorno o l’altro, ma per guardarci a rovescio e vedervi lontanissimi, ancora più piccoli di come siete che siete già piccolissimi»[6]).
Si capisce, fin da questi pochi tratti, che il personaggio narrante, non è soltanto un “inetto” («Non ho mai saputo cosa fare, nella vita, ciò mi appare spesso anche in sogno»[7]) e un “uomo senza qualità” frustrato, ma un soggetto più che sgangherato: un alienato, un “io” scisso e dalle identità e coscienza frantumate, disintegrate. Ad attestarlo è il suo atteggiarsi al confronto con la realtà che lo circonda. Afferma, infatti, di coabitare con una sorella, di cui teme gli sguardi («Se l’occhio è lo specchio dell’anima gli occhi di mia sorella somigliano sempre più a quelli di Velleda, quindi apriti cielo, meglio che tutt’e due ce li avessero di vetro, almeno non starei in pensiero»[8]), ma nessuno ha mai visto la donna, tanto che, nel quartiere, si dubita della sua effettiva esistenza;[9] afferma, poi, di avere dei figli adulti e un nipote ingegnere, ma nessuno ha mai incontrato questi altri suoi fantomatici parenti; nutre un odio feroce verso Velleda (la sua ossessione: «Mi metterei a pensare ma pensare è difficile. Mi viene soltanto di pensare a Velleda ma questo non lo voglio fare…»[10]): una creatura che gli avrebbe causato tanto male e dalla quale, dopo sedici anni di burrascosa vita in comune, si sarebbe separato, ma anche sulla reale esistenza di costei, nel corso della narrazione, sorge più di un ragionevole dubbio; non ha amicizie, interessi, frequentazioni; non ha ambizioni, se non quella – l’unica – di portare a compimento un romanzo (intitolato: L’amore è niente in confronto dell’eternità[11]), alla cui stesura afferma di lavorare da tempo, ma copiando brani e pagine di Storie Universali Illustrate, di Guide Turistiche, di vecchi giornali e riviste.[12]
Ed ecco far irruzione nel racconto Nathan Glazer, il protagonista de L’amore è niente in confronto dell’eternità, e sdipanare, anch’egli in prima persona, la “storia” che lo riguarda: i genitori, attori e proprietari di un ristorante in Polonia; la loro fuga da Vilna e il loro avventuroso arrivo nella Germania fra le due guerre (dove il personaggio che ora dice “io”, Nathan, è nato); la scomparsa del padre e la difficile adolescenza; la partenza per Parigi, sotto falso nome; l’arrivo, dopo qualche tempo, a New York… Nathan era stato anche in Italia, giuntovi con l’esercito americano durante la guerra. A Roma aveva incontrato Maria del Carmen Jurkewitch: «Fu la sera che Utica batté Albany 2 a 0. Non ho voglia di raccontare tutto questo racconto. Esso termina col matrimonio di Nathan con Maria del Carmen. Il nome è straniero ma lei è italiana. Non so dove l’ho trovato, questo nome, ma mi è piaciuto perché è un nome che fa paura, e somiglia a Velleda che fa più paura di tutto. La loro luna di miele durò soltanto quattro giorni, poi Nathan fu rispedito negli Stati Uniti a bordo della Queen Mary».[13]
A questo punto, però, il personaggio-io, autore del racconto in corso di stesura, si accorge d’essersi arenato: di non riuscire più a procedere nella narrazione. Egli, comunque, non intende rinunciare a concludere la sua opera. Per questo si rivolge a un coinquilino scrittore di successo, il Vela, affinché gliela completi e magari la pubblichi con il proprio nome (il mio romanzo, gli dirà, è «la storia di uno che non sa scrivere la propria storia e ricorre a lei perché gliela scriva»[14]). Inizia, così, la terza scheggia narrativa, incentrata sul rapporto fra il personaggio-io, autore del racconto, e lo scrittore Vela. Sta per iniziare, nel contempo, anche l’ultima, la più strampalata, scheggia di “storia” di cui si compone il romanzo di Lattes – quella, surreale e grottesca, dell’amore del protagonista-io, autore de L’amore è niente, e dell’immagine televisiva di un’annunciatrice –, che si svolge in parallelo alla vicenda sentimentale ed esistenziale di Nathan con Maria del Carmen, i personaggi del romanzo.
Lo scrittore interpellato accetta l’incarico, a patto, tuttavia, che il committente gli appronti per iscritto i vari episodi da romanzare. Questi, invece, consegnerà allo scriba manciate di foglietti, su cui ha annotato disordinatamente accadimenti, episodi e ricordi della sua vita, li ha attribuiti ai personaggi del romanzo e li ha proiettati in luoghi lontani, un po’ esotici, come a volerli allontanare il più possibile da sé e strapparli una volta per tutte dal proprio “vissuto”, o dalla propria stravolta e delirante immaginazione. La storia della sua vita e del suo ménage con Velleda diventerà, in tal modo, quella di Nathan con Maria del Carmen, dislocata in una New York da film di infima qualità, nel quale il personaggio del romanzo in corso di stesura, Nathan, reciterà il ruolo di uomo debole, senza spina dorsale, alla mercé della sua cara mogliettina, e rassegnato ad un’esistenza anonima, scialba, scandita dai continui tradimenti, dalle scene isteriche, dalle umiliazioni, dai ricatti. Fino a che un misterioso omicida – e la narrazione assumerà da qui imprevedibili coloriture di “giallo” – non lo libererà dall’ingombrante presenza della consorte.
Nonostante la confusione e il disordine degli appunti e dei foglietti fattigli avere dal committente, lo scriba Vela riesce a concludere la stesura del romanzo. Che, inviato ad un editore per la pubblicazione, viene rifiutato. L’io-narrante committente, tuttavia, non sembra dolersene. E, dopo aver appiccato il fuoco al suo appartamento e poi al negozio di ottica, esce in strada e vi incontra Nathan, il personaggio d’inchiostro da lui creato: ritrova, cioè, il suo io sdoppiato.


* * *

La narrazione organizza le varie schegge di “storie” secondo linee che si intersecano, si divaricano, seguono, a tratti, autonomi sviluppi e, poi, ritornano ad intersecarsi, ad aggrovigliarsi, a separarsi (perché, è la considerazione dell’io-protagonista, autore del romanzo in corso di stesura, «i fatti si nascondono si spostano si rimescolano[15]), e tratteggia i segni di uno stravolto universo tutto mentale, costituito dalle farneticazioni e dalle allucinazioni dell’io disintegrato nell’identità e nella coscienza, ridotto a labile ombra vagolante in un tetro labirinto di specchi. Un io privo di fisionomia e di corporea consistenza, che sembra proporsi come mera immagine (o “ombra”) mentale estrinsecata per il tramite della scrittura e percepire la realtà attraverso le immagini di essa; che pare confondere, anzi, le immagini del reale col reale stesso (si veda, per esempio, il rito serale della proiezione delle «figure in movimento» con il vecchio proiettore Mazo-Paris; oppure l’appuntamento dell’io-ombra con l’immagine dell’annunciatrice televisiva, oggetto del suo innamoramento, e la messe di segnali e di ammicchi che le rivolge e che crede gli siano rivolti).
Delle cause della frantumazione dell’identità e della coscienza dell’io, della sua riduzione ad ombra in movimento non dissimile da quelle degli idoli che, nel mito platonico, gli abitatori della caverna vedono transitare, e confondono con la realtà, sulla parete che hanno di rimpetto, lo scrittore non fornisce precise notizie; la sua scrittura, tuttavia, ripetutamente le lascia intuire in un forte trauma psichico: nella tempestosa convivenza con una donna – una vera e propria diavolessa – che ha reso al povero io, già di per sé uomo “senza qualità”, “inetto” e dalla personalità fragile, l’esistenza un vero inferno, facendolo soffrire atrocemente. Questa figura di donna, Velleda, forse un tempo amatissima, pur non distanziandosi troppo dall’apparire anche lei un’altra farneticazione, stavolta orrendamente deturpata, della mente del personaggio-io, acquista via via valenza di metafora: prima si trasforma in incarnazione della cattiveria, della malvagità, del male gratuito e immisericorde che può venirci dagli “altri” («se i malvagi portassero occhi di vetro potremmo guardarci senza spaventarci e ingannarci. Dovrebbero portarli, anzi, per ordine del Prefetto, gli esseri come Velleda, capaci di sguardi limpidi e dolci da crederli le persone più limpide e dolci di questa terra»[16]) e, poi, con una similitudine iperbolica che ha come termine di paragone sempre gli occhi della donna-diavolessa, in simbolo del male assoluto, come si è manifestato nel mondo contemporaneo a partire dalla comparsa di Hitler.[17]
Su come abbia potuto resistere tanti anni con una simile donna, l’io-ombra dà una risposta diretta, quando si rivolge al giudice della separazione («È stato per mancanza di ordine, signor giudice […], la giornata è troppo corta, subito viene l’ora di andare a dormire e ne comincia un’altra»[18]), e una indiretta al Vela, allorché lo scriba gli pone analoga domanda sulla vicenda coniugale del personaggio del romanzo in corso di stesura con Maria del Carmen. Egli gli spiegherà che Nathan ha resistito «per pietà, per paura anche…» e perché aveva «soltanto lei»:

— Perché rimaneva, Nathan? — chiedeva il Vela.
— Per pietà, per paura anche…
— Di che cosa?
— Aveva soltanto lei.
— La compiango.
— Nathan non aveva altro. È difficile, a volte […]. Non aveva nessuno, capisce? Si preferisce fingere, allora, — dicevo.
— A quel punto: fingere che cosa?
Non sapevo rispondere.
— È nel carattere del suo segno, — diceva il Vela, — Nathan cercava distruzione.
— Si dice così, se ne dicono tante. Distruggersi nessuno vuole. Era paura. La paura abitua anche al male e al dolore. Diventano destino».
[19]

La seconda è la risposta, ancora una volta, dell’uomo debole, riferibile sì ad altri ma per sé inammissibile: dell’”inetto” che non ha la forza di reagire, di ribellarsi, di liberarsi del male e del dolore, ma che può solo fantasticare di compiere, come se realmente la consumasse, la più crudele ed efferata delle vendette: quella di cavare con un coltellino gli occhi dalle orbite della donna, senza che lei se ne renda conto, e sostituirglieli con occhi di vetro:

— Anche se la nostra vita è andata come è andata —, diceva Velleda — anche se io ho le colpe che ho, si tratta di…
È inutile nominare di chi si tratta. Parlava pomposa come la conoscevo. Ciò aggiungeva piacere alla mia intenzione. Parla parla dicevo tra me […].
— Non preoccuparti, non preoccuparti, — ho detto a caso. Il coltellino l’ho sempre a portata di mano.
— Vieni qui, vieni.
L’importante è fare il primo taglio, il coltellino è affilatissimo e sta nella mano senza che si veda.
— Che cosa fai? — Non aveva provato il minimo dolore, era bastato un gesto, come per toglierle un capello dalla fronte…
— Niente niente, siediti, — C’era una sedia. Continuavo a toglierle quel capello, che adesso fingevo le fosse scivolato sull’occhio sinistro. In realtà incidevo torno torno la congiuntiva bulbare, penetravo dietro il bulbo, recidevo muscoli, nervi e vasi. In certe condizioni è un’operazione indolore.
— Che cosa fai? Me lo hai fatto andare nell’occhio, il capello.
— Un attimo, un attimo che te lo tolgo. —. Ho reciso il nervo ottico, — visto? —
Velleda rimaneva seduta sulla sedia, non sapeva cosa fare. La mia gentilezza la disorientava, le aveva guastato la scena madre […]. Senza darle il tempo di riprendersi, ho ripetuto l’operazione sull’occhio destro. Gli occhi di vetro li tenevo in una scatoletta, preparati con una speciale colla che rimane fresca se libera e indurisce immediatamente se messa al contatto di un corpo. Uno dopo l’altro li ho incollati sulle fasce dei bulbi e vi ho lasciato ricadere sopra le palpebre. Ho fatto qualche passo indietro per controllare l’effetto. Era magnifico.
[20]


* * *

Della crisi del personaggio-io o, più precisamente, della frantumazione e della dispersione dell’identità del personaggio-io protagonista del romanzo, si è occupato György Lukács. Secondo lo studioso ungherese, la crisi è collegabile a quella delle strutture romanzesche prodotte dalla società borghese: dalla lacerazione, originata da tale società, tra soggetto e oggetto, che ha dato luogo a due tipi fondamentali di romanzo, rispettivamente rappresentati dal Don Chisciotte e da L’educazione sentimentale. Nel primo tipo, l’io-protagonista si lancia a testa bassa contro il mondo, ignorandone lo spessore; nel secondo, egli si chiude e si isola in sé su una posizione contemplativa e intimistica. Lukács auspica la fine del genere romanzo, insieme con la società che l’ha prodotto. A meno che, finisce poi per ammettere lo studioso molti anni dopo La teoria del romanzo (che è del 1915), l’io-protagonista non assuma un atteggiamento diverso all’interno della struttura romanzesca. Poiché, infatti, si tratterà di narrare la condizione tipica della vita moderna – la scissione tra l’io e l’assoluto, tra l’anima e le forme –, il personaggio del romanzo e le strutture romanzesche che lo contengono potrebbero essere adatti a rappresentare simile condizione nella sua forma tragica. Che non potrà che essere rappresentazione realistica, intendendosi per realismo non il rispecchiamento naturalistico della vita quotidiana (come pretendono i fautori del realismo socialista), né un atteggiamento generalizzante inteso a cogliere le leggi della realtà (com’è quello della scienza), bensì lo sviluppo di un’intuizione sensibile del “particolare”, capace di stilizzarne l’elemento tipico e caratterizzante rispetto al contesto storico e sociale. Questo avviene soprattutto, ad avviso di Lukcás, nel romanzo ottocentesco di Balzac e di Tolstoj, e, successivamente, nel romanzo di Mann, il realismo dei quali si distacca da quello comune e banale e recupera la totalità significativa di un momento storico attraverso il “particolare” e il “tipico”.
Al personaggio-io, protagonista del romanzo di Lattes, alla disintegrazione e alla dispersione della sua identità e della sua coscienza non sembrano potersi applicare le teorizzazioni lukacsiane. Sia perché l’io-protagonista del romanzo del nostro scrittore non pare per nulla ripiegarsi in se stesso e chiudersi alla concretezza del reale in una sterile contemplazione intimistica di esso, sia perché, pur fornendo del mondo una non superficiale rappresentazione critica, mai mostra di voler porre in atto la ben che minima, donchisciottesca, ambizione di mutarlo, sia infine perché talune scene, taluni particolari di crudo, talvolta crudele, realismo, entro cui si muove, non solo non appaiono “tipici” e “significativi” della totalità del contesto storico-sociale nel quale egli vive, ma contengono addirittura una striatura di deformazione ironico-grottesca che li distorce decisamente in stralunata surrealtà (pensiamo, per esempio, alla tecnica della cattura e dell’uccisione dei topi; oppure alla scena del ritrovamento del cadavere di Maria del Carmen: a quel corpaccio d’uomo, sul cui collo tagliato poggia la testa della donna).
Bisogna, pertanto, cercare altrove la fonte configurativa della frantumazione e della dispersione dell’identità e della coscienza del protagonista-io autore de L’amore è niente. E in proposito, tenuto conto anche delle non poche spie psicoanalitiche che la scrittura di Lattes lascia trapelare (gli incubi dell’io, le sue ossessioni, le sue paure, l’impressione, terribile, che la sorella, oltre che alla detestata Velleda, somigli anche alla propria madre[21]), più che alla narrativa di scrittori italiani quali Pirandello o Svevo, volta a rappresentare la volontaria negazione dell’identità del personaggio-io nel suo aspetto “storico”, pubblico, vale a dire nel rapporto con gli altri e con il mondo (autocondannandosi, per ciò, alla solitudine, o alla malattia e all’inettitudine), si deve ricorrere a quella del mitteleuropeo Musil, dove tali disgregazione e dissoluzione, lontane dal ridursi a semplice, volontaria rinuncia all’identità personale, diventano ricerca e acquisizione salvifiche del vero sé, nella più autentica sua unità psicologica. Lo comprova un altro romanzo lattesiano, L’incendio del regio, là dove l’io protagonista si sbilancia in considerazioni [22] concettualmente più contigue al voler essere “nessuno” stilizzato dal citato scrittore austriaco.
Certo, il protagonista-io autore de L’amore è niente si rifiuta di “comunicare” il proprio nome; ma lo fa come strumento di difesa: perché l’esperienza della vita, oppure la sua mente sconvolta, l’ha indotto a ritenere che rendere di pubblico dominio il proprio nome potrebbe essere utilizzato da qualcuno per causargli del male (quel male, di cui ritiene di aver molto sofferto a causa, appunto, della cattiveria degli inamati “altri”, che vorrebbe tener distanti da sé il più possibile, vorrebbe guardare, per vederli più piccoli di quanto siano, attraverso un binocolo rovesciato). Nel rifiuto della “comunicazione” del nome non è incluso, com’è ovvio, il rifiuto del nome: il rifiuto dell’identità o la rinuncia ad essa (che, anzi, il protagonista-io intende proteggere dal “male” e dalla “disgrazia”). Certo, egli afferma di non essersi mai capito, tanto da desiderare di essere “un altro”; ma anche questa affermazione non implica un rifiuto o un’abdicazione della propria identità, bensì rimane ad un livello puramente ottativo, se è vero che, nonostante il disordine e la confusione con cui annota pensieri, ricordi, episodi, pene e traumi della sua esistenza, riesce (con l’ausilio dello scriba) a portare a compimento il suo romanzo: per il tramite della scrittura, riesce a trasferire quei pensieri, ricordi, episodi, pene e traumi al protagonista della sua opera narrativa e, con un’operazione di autoanalisi – una sorta di junghiana “individuazione”[23] – che si conclude in due fiammate purificatrici, può incontrare il suo io sdoppiato e finalmente riconoscervisi: accettarsi per quello che è.


* * *

La scrittura, in simile prospettiva, riveste una funzione fondamentale nel romanzo di Lattes, poiché, oltre a svolgere il compito, cui si è accennato, di strumento di autoanalisi del protagonista-io, alimenta lo stesso cuore pulsante della finzione e dell’artificio costitutivi dell’invenzione letteraria. Sostenuta da un sottofondo meditativo e morale, essa procede per libera associazione di riflessioni, di concetti, di pensieri,[24] di vaneggiamenti, e con un travolgente ritmo da discorso perpetuo, efficacissimo a rendere il frenetico farneticare del personaggio narrante. Una scrittura che allenta, sì, i suoi nodi sintattici (senza mai, peraltro, smarrire la coerenza dei significati del periodare), riduce all’osso i segni d’interpunzione, si fa mimetica del “parlato”, si espone al rischio dell’involuzione espressiva, della ripetizione, del luogo comune, della frase fatta, ma che a meraviglia si attaglia a rappresentare l’universo in frantumi – le fobie, gli incubi, i mugugni, le quiete follie, le allucinate visionarietà – del suo personaggio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non si vieta di smarginare in improvvisi spazi di delicato e buffo surreale,[25] né di punteggiarsi d’altrettanti improvvisi lampi di un’ironia ai limiti del grottesco-paradossale,[26] e neppure di aprirsi direttamente a sprazzi di impassibile, amara-tragica, comicità alla Buster Keaton, come avviene nelle pagine in cui l’io-protagonista prova sulle vetrine dei negozi, con le signorine che vi si specchiano, l’effetto della olhada portoghese – dell’occhiata inquieta e dolorosa, «fuoco saettante di mute dichiarazioni» –, prima di sperimentarla a casa, davanti all’immagine della presentatrice televisiva, per attirarne l’attenzione e “conquistarla”.[27]
Una scrittura, dunque, che ribadisce e difende lo spazio dell’artificio e dell’invenzione proprio dell’operazione letteraria (non a caso, riconoscendone la capitale importanza, il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, dirà allo scrittore Vela: «Senza di voi, se non interveniste a dare un nome alle cose, di Nathan non esisterebbe neppure una storia»[28]); e che impiega il linguaggio, l’aspetto verbale-comunicativo del mondo sociale, lo sfaccetta nei suoi vari livelli – dal “parlato” al poetico,[29] dal riflessivo all’ironico, dal grottesco al comico-tragico ecc. –, per fornire non una semplice rappresentazione dell’essenza della vita nel reale, ma un giudizio lucido, acuminato, su di essa (giudizio che traspare, per esempio, dalla seguente confessione: «… scrivo a caso e dimentico quello che ho scritto. Magari torno a scriverlo. Scrivo cose che stanno alla fine della storia e, dopo, altre che stavano al principio: ma non vanno forse così le ore e gli anni dell’Unico Giorno che è La Vita con grida e silenzi che si mangiano e cancellano tutto?»[30]).
Ed è in grazia dell’importanza attribuita alla funzione della scrittura, di cui sembra conservare un residuo barlume coscienziale, che il protagonista-io, al quale sfugge il significato dell’essere – suo e degli altri – nel mondo, decide pervicacemente di impegnarsi, unico scopo degno ormai della sua attenzione, nella stesura del romanzo (della fabula) della propria vita, con la segreta speranza che, obiettivandosela, rappresentandola criticamente, cioè giudicandola, riesca in qualche modo a scioglierne, a decifrarne e a comprenderne l’enigma. Per questo egli, quando si rende conto di come una vita inventata – poco conta che sia la sua o quella dei suoi personaggi d’inchiostro –, possa risultare più vera del più implacabile vero, ricorre allo scrittore professionista perché gliela reinventi (dato che «alla verità», come egli ragiona, «si arriva meglio inventando»[31]) e gli restituisca l’esistenza e l’identità perdute o mai avute.
Sono ancora una volta, pertanto, le tematiche cruciali – i pilastri – dell’universo inventivo di Mario Lattes a campeggiare anche ne L’amore è niente. Il vuoto incolmabile d’amore, in primo luogo, avvertito dallo scrittore come un deserto, dal quale nessun segno sembra provenire che renda meno desolata la breve avventura dell’essere nel reale e nella storia (con la conseguenza che, in reazione al continuo scacco del suo desiderio d’amare e di sentirsi amato, l’uomo finisce per non accettarsi, per sdoppiarsi, magari per rifugiarsi in scombinati altrove, senza riuscire ad eludere, comunque, il proprio destino di solitudine, di dolore, di pena, l’angoscia dei propri premonitori sogni di morte[32]). Qui acquista evidenza la lezione heideggeriana per cui esistere autenticamente (possederne la consapevolezza) significa, per l’esistente, non tanto essere-nel-mondo, quanto e soprattutto essere-per-la-morte accompagnato da una continua condizione d’angoscia: dal sentimento di scoprire, esistendo, la nullità di tutte le cose.[33] Di poi, l’impossibilità d’instaurare con il prossimo un qualsiasi rapporto solidale, derivante dalla verificata osservazione che, ad improntare ogni umana relazione, sia la diffidenza e il disprezzo da parte dell’“altro” e, soprattutto, la insensata, indemoniata corsa di ciascuno dietro al dio-denaro (come expressis verbis il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, dichiara là dove racconta un suo sogno ricorrente: «L’albergo del sogno è sempre molto sporco, ci sono escrementi dappertutto. Gli escrementi sono il denaro che c’è nel mondo, lo dice la psicanalisi: la gente gli corre dietro come indemoniata; ho un bel volergli parlare, alla gente, ha altro da fare. Io non corro dietro a niente…»[34]). La difficoltà, spesso l’impossibilità, inoltre, di comunicare con gli “altri”, che crea fra le persone barriere invalicabili, muri d’incomprensione, baratri di raggelante silenzio, sicché «anche le cose più semplici diventano muri alti tre metri oltre i quali non si va né si vede».[35] La convinzione, infine, neramente pessimistica – e, quindi, irrimediabile, in quanto attribuita dallo scrittore ad un difetto insito alla stessa natura umana –, secondo la quale «Tutti i guai vengono dal fatto non che le teste funzionino diverso ma che si vive credendo che funzionino uguale. Se vogliamo credere che le teste funzionino uguale dolori e vergogne di questa vita ce li meritiamo».[36]
Un pessimismo, peraltro, che, ancora sulla scorta della riflessione di Heidegger, mette in crisi la possibilità dell’uomo di raggiungere la verità e, più in generale, la possibilità di una metafisica capace di svelare l’essere, poiché essa può compiersi nell’uomo unicamente come destino spirituale: come rivelazione del mistero. In tale specola, significative risultano, ne L’amore è niente, le pagine (64-65) che Lattes dedica all’incontro di Nathan con le ombre dei genitori, o quelle (89-90), riprese poi, in terza persona e con varianti relativamente al personaggio Agur, ne Il Castello d’acqua (209-211), dove il protagonista-io, autore del romanzo in corso di stesura, come in sogno o in trance ritrova in casa i fantasmi dei propri defunti.


______________

[1] La Rosa Editori, Torino, 1985.
[2] Ivi, pag. 3.
[3] Ivi, pag. 13.
[4] Ivi, pag. 8.
[5] Ivi, pag. 13.
[6] Ivi, pag. 9.
[7] Ivi, pag. 18.
[8] Ivi, pag. 10.
[9] «Per dimostrare ai negozianti che mia sorella è una brava donna di casa, chiedo in questo o quel negozio se per caso è già passata di lì.
— Sua sorella? — dicono, — lei ha una sorella?
— Mia sorella, — dico, — non ricorda?
— Non sapevamo che avesse una sorella, — dicono, — ma guarda.
La volta dopo scuotono la testa e ridacchiano appena mi vedono.
— Sua sorella non è venuta, — dicono subito, e si scambiano occhiate. Allora esco senza comprare niente, resto senza mangiare.
Insomma sembra che mia sorella non ci vada, per le botteghe» (pag. 12).
[10] Ivi, pag. 5.
[11] Considerato «bellissimo» dal protagonista-io narrante (ivi, pag. 3).
[12] «Se il mio romanzo si è svolto finora in Germania è perché possiedo un bel libro con copertina nera istoriata a rilievi e titolo in oro. Il titolo è L’ALLEMAGNE. Ci sono tutti i nomi delle località monumenti e vie della Germania…» (ivi, pag. 17); «Da questo libro, dalla Storia Universale Illustrata e da vecchi giornali ho copiato molte cose. Poi viene il momento che libri e giornali non servono più, non c’è più niente da copiare, il foglio bianco è un lago insidioso…» (ibidem); «Copio mezza pagina, una pagina, se mi va bene tre pagine: poi il vuoto…» (ivi, pagg. 17-18).
[13] Ivi, pagg. 28-29.
[14] Ivi, pag. 39.
[15] Ivi, pag. 20.
[16] Ivi, pag. 10.
[17] «Gli occhi di Velleda sono fatti di specchi marci e neri che riflettono film e romanzi ma dentro c’è la pazzia di una potenza malvagia. E questa da dove viene? Gli specchi che avevano raccolto l’immagine dell’Austriaco, quando lui morì si ruppero in tanti pezzi. Erano specchi di caffè e specchi di ristoranti, di uffici pubblici e di camere d’affitto, aule scolastiche, palazzi. In Germania e fuori. Una grande esplosione. I frammenti di specchio volarono a distanze enormi, poi ricaddero qua e là sulla terra. Adesso Lui era dappertutto. Sui frammenti di specchi che avevano contenuto l’Immagine, altre immagini comparivano a poco a poco. Quella di Velleda era molto piccola perché molto piccolo era il pezzetto di specchio: ma perfettamente compiuta, a figura intera. I pezzetti di specchio, finiti dentro la terra, sotto le macerie, bisognava averli potuto distruggere. Ma nessuno li trovava. Se qualcuno li trovava, non poteva sapere. Così, senza che si sapesse, il mondo fu pieno dell’anima del Caporale che scomparendo aveva lasciato un vuoto irrequieto […]. La fragorosa sparizione del Maestro sollevò un pulviscolo di mostri orfani di Lui, che li comprendeva tutti» (ibidem).
[18] Ivi, pag. 19. Si confronti questa risposta con quanto l’io-narrante annota in ordine alla banalità e al tran-tran quotidiano del vivere del personaggio del romanzo in corso di stesura: «Sulla sera e sul mattino Nathan non aveva potere. Andavano e venivano. Lui si vestiva e si spogliava, si lavava e andava a dormire» (ivi, pag. 32). Il periodo, pressoché identico e riferito al personaggio Agur, si ritrova ne Il Castello d’Acqua, Torino, Aragno, 2004, pagg. 158.
[19] L’amore è niente, cit., pagg. 37-38.
[20] Ivi, pagg. 61-62.
[21] «Mia sorella vorrei che purtroppo non somigliasse a Velleda e tanto meno a mia madre…» (ivi, pag. 12).
[22] Torino, Einaudi, 1976, pag. 18: «Anch’io potrei cambiare nome, non sono nessuno, io, il nome è soltanto un suono, non è necessario che sia sempre lo stesso tanto più che moltissimi altri ce l’hanno uguale al mio, e poi la mia presenza non è continua, per nessuno, può cominciare e finire in un punto qualunque».
[23] Cfr. Carl Gustav Jung, Psychologische Typen (Tipi psicologici), Zürik 1959, traduz. ital., Newton Compton, Roma, pagg. 417-418.
[24] Nel procedimento meditativo della narrazione sembra di potersi cogliere un riflesso del pensiero heideggeriano: per il filosofo tedesco, infatti, l’essere non è altro che il pensiero che lo pensa, perché l’uomo che pensa è dentro l’essere.
[25] «… Poi sto lì al buio con la luna sulla spalla quando c’è la luna. Quando c’è il sole sto appoggiato alla ringhiera sul ballatoio. Guardo la mia ombra e l’ombra della ringhiera ai piedi del muro del cortile. Come ieri, per esempio: e mentre ero lì fermo, la mia ombra si è mossa è andata via come una persona che se ne va» (L’amore è niente, cit., pag. 26).
[26] «Quand’è la nostra ora, — dico, — voi state attenti ai fichi, prima di mangiarli apriteli, dentro ci può essere una vespa. Se ingoiate anche la vespa son dolori, guardate cos’è successo sul giornale. Questo fatto della vespa lo racconto spesso, in negozio l’ho già raccontato diverse volte. Ci sono quelli che lo sapevano già e dicono sì sì l’abbiamo letto, che fatalità; e ci sono quelli che ancora non lo sapevano. Lo strano è che tutti chiedono notizie della vespa» (ivi, pag. 25).
[27] «Dato che l’esperimento aveva funzionato, la sera mi sono messo davanti allo Schermo, un po’ arretrato rispetto a mia sorella. Quando è apparsa l’Annunciatrice ho cominciato a stralunare gli occhi. Li facevo ruotare intorno all’orbita, li dilatavo smisuratamente, mandavo le pupille a nascondersi sotto le palpebre. La sera dopo di nuovo. Siamo andati avanti un paio di settimane. Cominciavo a essere stanco. Ma una sera, mentre diceva la programmazione dei due Canali Televisivi, si è tutta sbagliata con le ore e anche con un nome. Ha dovuto fermarsi. Per poter proseguire ha dovuto mettersi a leggere. Mia sorella ha detto ma cos’ha stasera l’Annunciatrice. Io gongolavo. Nessuno meglio di me poteva spiegarglielo, cos’aveva, ma io zitto si capisce. Con lena rinnovata ho ripreso a stralunare gli occhi al modo doloroso e inquietante dei portoghesi» (ivi, pag. 55).
[28] Ivi, pag. 63.
[29] Si veda, per esempio, questo suggestivo notturno torinese: «La luna era ormai tutt’intera nel cielo, un uovo color del rame. Toccando la cima, ha liberato la notte. Centomila funi lucenti si sono sciolte e la collina era un fumo d’argento» (ivi, pag. 4).
[30] Ivi, pag. 33.
[31] Ivi, pag. 35.
[32] «Io faccio sogni che anticipano la mia morte e altri che non significano niente ma anche senza essere incubi paurosi mettono ansia e tristezza» (ivi, pag. 71).
[33] Scrive, infatti, il filosofo tedesco (in Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, p. 60): «L’essere tenuto immerso dell’esserci nel Niente sul fondamento dell’angoscia latente fa dell’uomo il luogotenente del Niente. Siamo così finiti che non siamo nemmeno capaci di portarci originariamente dinanzi al Niente mediante una nostra decisione o volontà. La finitudine scava così abissalmente nell’esserci, che alla nostra libertà è preclusa la finitezza più propria e più profonda. L’essere tenuto immerso dell’esserci nel Niente sul fondamento dell’angoscia latente è l’oltrepassare l’ente nella sua totalità, è la trascendenza».
[34] L’amore è niente, pag. 18.
[35] Ivi, pag. 24.
[36] Ivi, pag. 43.

(Pubblicato in AA.VV., Mario Lattes: narrativa e questioni di cultura, a cura di Loris M. Marchetti, Atti del convegno di Studio del 3-4 novembre 2005, Torino, Fondazione Lattes, 2007. pp. 75-85).