lunedì 17 agosto 2009

ALFREDO DE PALCHI

Franco Pappalardo La Rosa

NELLA «BUIA DANZA» DELL’ESISTENZA
Appunti sulla poesia di Alfredo de Palchi



1. C’è, in Sessioni con l’analista[1], una sezione intitolata Un ricordo del 1945, i cui tredici monologhi, incastonanti fulminei segmenti dialogici e impostati sul presente storico (che è quello della memoria graffiata dall’artiglio della sofferenza e, pertanto, un tempo riattualizzato), affondano lo scavo nell’irrimarginata ferita che ha dilacerato l’io nel corpo e nello spirito al tempo della sua giovinezza, quando, ingiustamente accusato, inquisito, torturato, condannato e trascinato infine nell’inferno di diverse patrie galere, dovette soggiacere alle brutalità, al sadismo delle guardie, alle privazioni e alle durezze del sistema carcerario.
Come libero ed ininterrotto flusso, più che di memorie, di coscienza, in una dolorosissima, scheggiata confessione di cui l’io sia riuscito finalmente a “scaricarsi” sul lettino di un analista (una confessione, ombrata sì dall’ala cupa della malinconia per il tragico destino toccato in sorte al poeta, ma in nulla cedevole al patetismo dell’autocommiserazione ed anzi scandita con straordinaria sincerità e maschia secchezza d’accenti), Un ricordo del 1945 ripercorre a ritroso la gragnuola delle non metaforiche “sberle”, inferte dall’esistere allo stesso io fin dall’istante nel quale egli è venuto alla luce: il non riconoscimento e l’abbandono da parte del padre, la miseria familiare, le offese di cui è fatto oggetto nell’età infantile dalla gente del paese, i dispetti e le angherie dei coetanei (un malvagio ragazzotto gobbo, per esempio, gli affogò nelle acque dell’Adige l’amato cagnolino[2]), l’educazione alla pratica della violenza quale unico-apprezzato modo per sopravvivere (lancinante, per esempio, il gemito emesso dal coniglio che io-bambino strattonò per estrarre dalla gabbia, tanto da attraversare ancora il ricordo del poeta e da fissarglisi a posteriori nella mente come simbolo del dolore universale degli inermi sopraffatti dall’arroganza della forza[3]).
Le altre sezioni della raccolta, poi, si fanno stilizzazione poetica dell’esistenza concreta, quotidiana – e delle occasioni, degli incontri, degli attimi d’intimità dissipati con le donne amate e perdute – dell’io-protagonista nelle grandi metropoli nelle quali egli, inquietamente, si va trasferendo per consumare al meglio la sua avventura nella realtà e nella storia: Parigi, Barcellona, New York. Quest’ultima metropoli, in particolare, viene scrutata dal di dentro, con la lente d’ingrandimento dell’etno-antropologo, nel caos del suo traffico, nella peste del suo inquinamento, nei miserrimi spettacoli offerti da un’umanità massificata, competitiva, aggressiva, imprigionata in invalicabili muri d’ottusa incomunicabilità («… quest’ora è fretta / – eleganti scorie s’ammucchiano alle vetrine / di manichini asettici ognuno / studia come colpire, ingannare / (il vaccino migliore è lo scambio) / fiuta il passeggio senza fiore o colore / che allegri la vista / si fa largo a colpi di gomito / prende l’incerto per il colletto della camicia / e, affari combinati, / offre la sigaretta / un bicchiere / il pranzo»[4]).
In simile, quasi animalesca giungla di acciaio e cemento, come una belva ferita l’io si aggira, attento, l’occhio vigile che tutto vede, tutto assorbe, tutto ingloba e traduce in crude-allucinate sequenze versiche: da quelle dei ragazzi in giacche di pelle nera, che, per noia o per divertimento, «al chiodo / infilzano / lo scoiattolo intanato nel muro del parco / sborseggiano nelle laterali / agonizzano per il soldo un coltello un’arma»,[5] alle altre che visualizzano sui marciapiedi gli «sputi catarrosi / escrementi di cani / allineati alle gambe lustre delle signore»[6]; dalla fulminea inquadratura degli «uccelli avidi di verde rasentare / la desolazione piatta della muraglia di vetro / tralicci impalcature»[7] alle immagini dei «barboni con bottiglie all’ascella / stravaccati su carta di giornale / intossicati lesbiche ninfomani»[8].
Si tratta di un io, tuttavia, che tende ad atteggiarsi a personaggio e a dichiarare non il proprio disagio di fronte a tanta «desolazione piatta», bensì la propria identificazione con quelle «eleganti scorie» d’umanità che ne attraggono l’attenzione, ne stimolano la sensibilità («chi mi batte la mano / fredda sulle spalle / può sbilanciarmi // fiero di operare alzo / costruzioni sintetiche, / con fiuto e lotta viaggio, vendo / e mi vendo anch’io ricco / di sconosciuti in attesa / che sulla mappa delle usurpazioni perda le rotte / – sèguito la via di finzione…»[9]). E ciò in conseguenza del sospetto, divenuto col crescere dell’esperienza vitale una salda convinzione, che il mondo altro non sia che un grande teatro (o circo), sul cui palcoscenico (o sulla cui pista) ciascuno deve truccarsi, travestirsi, indossare la sua pirandelliana maschera e strenuamente impegnarsi nella “recitazione” della propria parte, per adeguarsi agli altri, per riconoscersi simile agli altri («‘che maschera sono’ / non sono eguale / ‘che maschera porto’ / sono eguale’»[10]) e per non rimanere tagliato fuori dall’immane “spettacolo”: dalla tragico-grottesca pantomima che è l’esistenza. Anche se al lettore accorto non sfuggirà che il discorso poetico si sviluppa, qui come altrove (e l’inciso «sèguito la via di finzioni» ne costituisce inequivocabile spia), nella forma altamente retorica dell’antifrasi dolorante e sublime. Perché le radici dell’invenzione poetica depalchiana rimangono profondamente interrate nell’oscuro istinto di riparo e di difesa nei confronti della violenza, della prepotenza, dell’ingiustizia, dei sensi di colpa, dell’Unheimlichkeit – l’originario spaesamento –, che all’io marchiarono a sangue infanzia, adolescenza e giovinezza e che intatti perdurano nella sua maturità (non a caso, un paio di versi recitano: «in una preghiera di mani / mi sputo l’origine»[11]). Come se quel “marchio”, si è esattamente rilevato[12], abbia da sempre e per sempre costretto de Palchi a vivere un’esistenza “a metà” e da questa “amputazione” gli derivi «il rinnovarsi del trauma – anche sul linguaggio, anche sulla conoscenza – e della nostalgia, ma una nostalgia vuota di appigli, come se l’infanzia e l’adolescenza fossero evanescenti».
L’impasto linguistico – una ganga disadorna, fluida e antilirica – si modella, tanto sul piano stilistico quanto su quello strutturale, su un reticolo versificatorio caratterizzato dalla più assoluta anarchia di un apparato metrico di continuo franto, sintatticamente sconnesso, di forte impronta nominalistica, non di rado punteggiato da forme verbali espressionistiche di derivazione sostantivale o aggettivale («sbracia», «difforma», «sbiscia», «spula», «mi schiara», «si arressano», «mi scabbia», «mi sguscia», «scarnare»…) e assai prossimo all’informale. Esso imbastisce un fraseggio inventivo che astrattizza, asemantizza, riduce cioè ad immagine, le sfilze dei nomina, spesso in nuda sequenza («… laggiù case strade uomini / la delinquenza onorata, volumi di leggi / la città informe, verme che si divora»[13]; «… nelle fondamenta martelli pneumatici / scavatrici chiudono il motore / e ingegneri muratori carpentieri in elmetto / impiegate segretarie agenti della borsa / sodomiti della pubblicità aprono il cartoccio / di panini o si arressano nei ristoranti…»[14]), e dei materiali, di cui fittamente si compone, attinti alle aree più disparate del vocabolario (girandole di res ordinarie, cataloghi di zoologia, emersioni della memoria e dell’inconscio, ombre di sogni, segmenti espressivi, spesso spezzati e ripresi, in uso nelle aree metropolitane, terminologie specifiche dei conflitti interpersonali ecc), mirando essenzialmente, senza tuttavia smarrire la coerenza logica dei significati, alla organizzazione di un plausibile e complessivo significato altro: il sovrassenso del significante.
Per questo il verso, e il testo nel suo insieme, benché sempre di ràpida scorrevolezza e come risucchiato nel gorgo di un vortice, si presenta atonale e deprivato d’ogni ritmicità, con guizzi, abbassamenti ed impennate di suoni che richiamano la musica dodecafonica. Ad alimentare la cui sonorità concorre una serie di accorgimenti tecnico-retorici, all’apparenza casuali, che ne agevola l’intreccio e la variatio dei timbri. Si possono richiamare, in proposito, l’allitterazione («mi mangio maturando», «la lingua lecca la parola», «l’infetta infiammazione», «vicoli viscidi», «origini / ordigni ordini», «magnifiche mani», «verticalità vertiginosa», «sale saliva sangue e seme»), la paronomasia («volto volatile volto al sole») anche ad incrocio chiasmico («il sale del mondo / il mondo sale»), l’anafora regolare («così la frode è priva d’inganni / così la vita viviseziona la vita», «senza quartiere la muta nevrastenia, / senza quartiere i ragazzi…») e quella rovesciata («al mondo che cade / nell’erba che cade / al freddo che cade»), la reiterazione nello stesso verso di gruppi sillabici omofoni («come Meche / come me maschera», «forza rozza», «aguzzi che schizzano», «il passato resta aggrappato», «fiore inodore», «oltre l’uscio lunedì all’una», «i timbrici metallici che timbrano i timpani»), e l’apanodiplosi («leggi malandrine leggi»).
L’insistita presenza, poi, dei baluginii memoriali e degli affioramenti e dei reperti coscienziali e subcoscienziali, insieme con l’allentamento dei nessi sintattico-grammaticali della scrittura e con l’impiego, più che smaliziato, della tecnica del montaggio della frase versica a lacerti, a spezzoni – inconfondibili segni, tutti, di un’ormai avanzata dissoluzione dell’io che in tale linguaggio si identifica e si manifesta –, lasciano intravedere, nell’atto inventivo-stilistico posto in essere da de Palchi in Sessioni con l’analista – e in generale nella sua poesia –, un’anticipazione del processo di svecchiamento dello stantio linguaggio ermetico che, anni dopo, avrebbe costituito il cardine della proposta rivoluzionaria neoavanguardistica.

2. L’universo poetico depalchiano integro già si ritrova, peraltro, con linee forse maggiormente incise dal punto di vista sostanziale, dei contenuti, e più sfumate da quelli, strutturale e formale, della dispositio e della locutio, nella seconda raccolta, La buia danza di scorpione, apparsa nel 1993,[15] ma i cui testi risalgono al periodo 1947-1951: agli anni della detenzione del poeta nelle carceri di Procida e di Civitavecchia, allorché, appena ventenne, egli si scoprì a scalfire sull’intonaco della propria cella i primi versi.
Il senso del rintanamento nel buio e nella notte, dello sprofondamento nel pozzo dell’inconscio, dell’asfissia per la mancanza d’aria nella cella, della resistenza passiva in forme retrattili d’esistenza minima alle ordinarie violenze, agli insulti, alle percosse, affiora netto dai brevi, intensi, contratti componimenti. L’io recluso, in essi, appare raggomitolato in scorze ovoidali per meglio proteggersi, per “lavorarsi dentro”, per tramutarsi in “implacabile finzione” e non cedere, non perdere traccia di sé («Uovo che si lavora nella luce ovale / nuovo adamo / invigorisce nell’altrui simulazione / e quindi anch’io implacabile finzione / anch’io sono…»[16]). L’esistenza diventa in lui cieca vita animale, da talpa, irrimediabilmente circoscritta nell’infuocato e maleodorante “cubicolo” che la accoglie, dove si sfarinano sensibilità, cuore e ragione e nessun’altra percezione è possibile oltre l’”incubo” angoscioso che attraversa ed agita i sonni («Il cubicolo è un forno che trasuda / l’umore di me alle prese con la forza / e l’atto di scontare un vivere / ingombro di spurgo // – cosa serve aggiustare / il perché delle menzogne / l’immensità della pena più grande / di me in questi dintorni / se oltre l’incubo / non so altra percezione»[17]).
In un ambiente dominato dai rapporti di forza, l’io oppone il baluardo estremo della propria ”intelligenza”, che sa intangibile, e alle cinghiate materiali e morali cui è sottoposto dagli “insetti” risponde: «Mi condannate / mi spaccate le ossa ma non riuscite / a toccare quello che penso di voi: / gelosi della intelligenza e del neutro / coraggio aggredito dal cono infesto / delle cimici // – io, ricco pasto per voi insetti, / oltre l’ispida luce / vi crollo addosso il mio pugno»[18]. Anche alle continue offese degli “omuncoli da circo”, la risposta dell’io è metaforica: si paragona ad un lercio animale mai nominato (ma individuabile nei termini che lo descrivono), nel quale, data la similarità di situazioni, egli si riconosce nella comune intuizione della “consapevolezza”, della intelligenza “sgozzata”, e nello stesso lento, inesorabile “rantolo” del morire[19]. Oppure, con una similitudine ancora più stringata, lascia brillare l’immagine dell’agnello che sta per essere scannato, trasparente metafora di chi sia inerme, di chi non abbia “protesta o protezione»” all’altrui bestialità («Ti somiglio nel balzo nel belato / e neanch’io ho protesta / o protezione / – il coltello / che brutalmente ti affascina / alla carotide mi è uno fregio / permanente»[20]).
Del mondo di fuori gli giungono solo echi attutiti, confusi ronzii: come un chiasso primordiale («ovunque mi sparga / chiasso d’inizio odo»[21]); avvezzo al buio, lo scontro occasionale con la luce, cui l’io va incontro “con piedi cercatori / pesanti più che ali d’inverno”[22], gli ferisce gli occhi d’un bagliore accecante (“percepisco / accensioni”[23]),. L’unico scenario che gli è dato di vedere è quello, desolato, al di là delle sbarre di ferro che ne inquadrano il volto («Ciminiere fabbriche / del concime e dello zucchero / barconi di ghiaia e qualche gatto / lanciato dal ponte…»[24]). In simile condizione esistenziale e psichica, il passato del “recluso” si fa sempre più distante, riemerge a tratti, per straniti e disordinati lampi di coscienza, e sùbito si allontana nei ricordi o negli incubi («Al calpestìo di crocifissi e crocifissi / sputo secoli di vecchie pietre / strade canicolari / il pungente sterco di cavalli immusoniti / in siepi di siccità // – al gomito dell’Adige allora crescevo / d’indovinazioni rumori d’altre città – // e sputo sui compagni che mi tradirono / e in me chi forse mi ricorda»[25]; «Non più / udire il tonfo dei crivellati nel grano / urli di vecchie bocche e di bestie / negli incendi e bui guazzi / dell’Adige // vedere un branco di vili osservare / chi s’affloscia al muro / il camion che di botto lascia al lampione / chi fa le boccacce con eloquente / groppo di lingua»[26]); mentre il domani, le speranze di “una vita dissimile”, gli appaiono come una pallida nebulosa distante più della luna («Aggiusto lo sguardo riconto gli anni / anni ingannati pentiti regalati / alla famelica babilonia // se il domani fosse certo potrei forse / sostenere il morso / in me che segregato non indovino quale / luce mi darà vigore – / intanto in questo cubicolo / mi mangio maturando e sulla pietra / raspo per una vita dissimile»[27]).
L’esistenza dell’io non può che rapprendersi, allora, nel breve spazio del “cubicolo” dov’è imprigionata, nel «muro circolare che imprigiona la luce / essudata d’un olio buio»[28], e, in tale àmbito, rastremarsi ai soli elementari atti del vedere, dell’udire, del percepire, dell’avvertire odori, sensazioni, bollori del sangue, cupi franamenti del cuore. Il corpo sembra diventare il centro focale e la misura d’essere dell’io. Il quale lotta disperatamente con se stesso per controllare i propri deliri, le proprie smanie, i propri istinti autodistruttivi («Una mosca adolescente bruisce / sulla gamella calda di zuppa / annunziando l’infezione / e gira l’orlo come sulle labbra / di me che sogno di uccidermi»[29]). La follia è in un’ombra oblunga sulla parete della cella, nella civetta sulla palma del cortile che «stride / per il topo che sono»[30], nel pezzo di pane che sa di petrolio[31], nel lepidottero che sbatte le ali contro il vetro della finestra[32], nell’«io fuori di senno»[33] che resiste e persiste nella sua «buia danza / di scorpione»[34].
Tutto l’universo interno al “cubicolo” si miniaturizza, pian piano, si popola di una moltitudine di inquietanti piccoli animali (cimici, mosche, topi, vermi, ragni, lepidotteri, il notturno e araldico scorpione ecc.) che fanno compagnia all’io, anch’egli ridotto alla stregua di «animale seviziato» (come altrove egli si definirà), che ne attraggono l’attenzione e gli impediscono di sprofondare nel tunnel senza sbocco della demenza totale. Ed anche l’universo “di fuori” si rimpicciolisce, concentrandosi in una visione apocalittica e, al contempo, cosmica, di sofferenza assurda, senza scampo, senza misericordia («Si abbatte il pugno / sul totale formicolio / della natura – è / sofferenza questo gesto / nella vorace indifesa / degli insetti e / di me»[35]).

3. Si noterà come il fraseggio poetico di La buia danza di scorpione sia riconoscibile: sia già inconfondibilmente depalchiano. La parola vi si presenta spoglia, scabra, aguzza, impregnata di realia, di sostanza di cose, e i nomina delle res sono già tramutati in immagini, sono già adoperati come portanti strutture metaforiche. Gli snodi sintattico-grammaticali risultano allentati, in un discorso paratattico e asindentico (benché quasi del tutto privo dei segni d’interpunzione che connotano paratassi e asindeticità), che rifiuta gli orpelli del lirismo e che fonda i suoi statuti sul cemento di un realismo aspro, essenziale, tutto teso non a “cantare”, ma a significare la sostanza dell’inumana esperienza che l’io poetante si trova a vivere nonché il trapano delle sofferenze, dei pensieri, delle ossessioni, delle angosce, del frenetico farneticare, che ne perfora la mente. Tutto ciò avveniva – occorre ricordarlo – in una resistente ed epigonica stagione ermetica: un merito non piccolo e di non poco conto da ascrivere a favore dell’invenzione poetica di de Palchi.
Nella successiva Costellazione anonima[36], lo spazio inventivo di questa poesia si amplifica: smargina dal dato personale per dilatarsi fino ad inglobare l’intera condizione umana («e più oltre, / vedo me, uomo // la sua angoscia di animale / di sentore mortale / di mente s-centrata // che in una stretta si uncina e sulla sabbia / flotta il “Verbo” semplice, / gira sul proprio sangue e si inginocchia / a vedere la finale malevolenza / di sé, uomo sbilanciato dalla voragine / desolata della terra promessa»[37]). La corruzione, l’odio, la follia, la violenza, la vanità, la solitudine, l’ipocrisia, l’incapacità di comunicare con l’altro acquistano valenze rappresentative cosmico-universali, nelle quali l’evoluzione si delinea come astuta impostura, mistificatorio inganno. Non c’è progresso, nell’evoluzione, bensì finzione di progresso, ossia una pietrificata fissità: dal regno animale alle più complesse forme di vita fino all’uomo, l’esistere nell’universo non è che sciocca illusione, poiché si fonda esclusivamente sulla messa a punto di sempre più raffinate, ma sostanzialmente brutali, tecniche di sopraffazione tese ad assicurare la sopravvivenza delle varie specie.
La storia stessa non è che la “favola bella” – la frottola – propalata da un potere che sempre meglio si organizza per distruggere, per schiacciare, per nientificare l’individuo più debole; essa, pertanto, non si configura come progresso, ma, al contrario, come regressione verso il trionfo dell’istinto bestiale, in cui l’esistere nella realtà si riduce a heideggeriano Sein zum Tode: ad un mero, banale, destituito d’ogni senso, esserci per la morte. De Palchi lo fa rilevare senza troppi giri di parole, là dove traduce in sintesi poetica la sua centrale idea speculativa: «Come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti – sotto ogni foglia al suolo si appicca / una lotta d’insetti e dovunque / di sopravvivenza: del topo del coniglio / del falco che assalta planando / del ragazzo beccaio di ferocia allegria / che bastona il bue e con ingordigia di potere / urla ora ti ammazzo»[38] (altrove puntualizzerà – e la sua sarà una lucida, amarissima constatazione –: «la paleontologia annulla le menzogne storte / bisogna uccidere e la selezione / espediente non del più forte / o intelligente / ma del più scaltro / decide»[39]).
La realtà quotidiana, d’altronde, gliene fornisce una miriade di plausibili prove nel suo continuo scandirsi lungo il diagramma della prepotenza, della sopraffazione demente e della mors tua vita mea: dalla catena della violenza, che via via si va spostando, non dal più al meno intelligente, ma dal più forte e scaltro al più debole e inabile a difendersi («Il triangolo d’alberi e panchine / tra le due vie è battaglia demente // di notte sempre di notte – luce / è invenzione – il ragazzo malmena un vecchio / il vecchio frantuma una bottiglia / sulla testa del cane / il cane intelligente, non scaltro…»)[40], all’odio becero di chi al sangue e alla morte sia avvezzo («Hanno sparato al negro / in un negozio di erbivendoli, / frizzante la testa di crespo / poggia in una cassetta / di pomodori / – Ha rubato soldi dalla cassa / – borbotta la calca ed io intuisco / nella tasca di chiunque / l’indice lesto sul grilletto. // Scrollo le spalle che mi fanno male / pensando al cozzo nelle sue e alla faccia / di scarnati pomodori / – È sangue? – / – Eh, è un nigger – / osserva un bagonghi»[41]).
Sicché, costretto ad arrendersi all’evidenza e alla preminenza del male nel mondo, l’io poetico cerca di reagire come può, di adeguare, per non soccombere, il proprio comportamento alla legge della foresta. Dove prevale il marasma della follia, spadroneggia, infinta nelle apparenze d’una imperturbabile indifferenza, la narcisistica dismisura di un egocentrismo alimentato dal godimento dell’altrui soffrire, e la parola (anche e soprattutto quella poetica), ormai raggrumata nel gelo e nel silenzio dell’incomunicabilità, non trattiene più, là dove per avventura venga pronunciata, alcun apprezzabile significato: è vana eco di suono, insulso e disarticolato flatus vocis o, come meglio dice il poeta, «è morte vivente in noi»[42]. Per questo egli l’adopera, evidente segno della pietas che gli attanaglia cuore e cervello, nell’unico modo in cui sia ancora possibile restituirle un residuo margine di significanza: nel ribaltamento verbale di senso leggibile attraverso il costrutto per antifrasi («… il mondo sorride sotto il pugno / noi abbiamo scelto di non piangere non / aiutare ma guardare altrove / quando s’incontra il tramortito / e di passare con l’indifferenza / che si ha per l’animale travolto / dalla macchina o dall’arma – / è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso»[43]).
In pieno si coglie, nei componimenti della raccolta, il deformante controsenso del sarcasmo e del paradosso antifrastici con i quali de Palchi sintetizza – e, per il tramite dell’aguzzo strumento dell’artificio verbale manovrato in maniera davvero magistrale, traduce in implacabile giudizio critico-poetico – lo squallidissimo quadro tragico d’insieme che, in conseguenza del devastante impatto della fenomenologia del reale sulla sua identità psicologica, quella fenomenologia dentro gli compone. Ecco, allora, “esplodere” nei versi le rappresentazioni visionarie e cosmico-apocalittiche di un universo di detriti e polveri che avvolgono, che soffocano, che seppelliscono ogni forma di vita e la rimescolano al ritornante, putrido fango del caos primordiale («Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno / su me un cadere continuo di polvere dal soffitto / sul letto tappeti bottiglie dalle pareti / che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere / già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa / polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa / e intorno il sistema termonucleare come me cadavere / che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto / dal mio centro intorno me stesso: / costellazione anonima»[44]).

4. Forse, lascia trapelare il poeta, la salvezza può rinvenirsi unicamente nell’amore per la donna, punto di sutura di due esistenze e di due anime, che costituisce un «ritorno sicuro dove il primo seme / mi chiude una volta gli occhi / per riaprirli su te»[45] e dove «nella polvere il sangue si coagula e indietreggia / alla nascita»[46]. Lo spirito bruto infuso nella scrittura inventiva depalchiana si scontra, dunque, con un manifesto desiderio di ordine e di chiarezza; nell’io sembra farsi strada un moto sublimante verso qualche principio di cauta apertura alla compromissione con idee platoniche (o costruttivistiche), in grado di offrire e di garantire un plausibile significato, qualunque esso sia, alla presenza sua e del suo destino sulla scena del mondo. L’amore può fare il miracolo, può conciliare l’io con il sé autentico, aiutandolo ad accettarsi, a riconoscersi – ad “individuarsi” avrebbe detto Jung[47] – per quello che nella più intima essenza egli in effetti è («amore, scendo a trivello nel pozzo / ti chiamo nel sonno molestato / da disordini ed avversioni, / anch’io listato di offuscamenti e disagi mentali»[48]).
Senonché, anche nella direzione di questa apertura prospettica, l’io finisce col ritrovarsi effimero, “s-centrato”, in stato di quasi Seinvergessnheit[49] – di dimenticanza dell’essere –, capace di mimare storia e natura, di riprenderne gli schemi, di contenerli e di immobilizzarli entro le strutture versiche e strofiche, magari di ricostruirli con un gioco persino allucinato in un nuovo vocabolario, in un aggiornato repertorio di immagini, di ritmi, di scansioni sonoro-ecolaliche, di apparati tecnici e stilistici[50], ma non di trarsi fuori e di sentirsi affrancato dal risucchio dell’orrido buco nero dell’angoscia, della banalità, della contraddittorietà, del paralizzante non-senso esistenziale. Finisce soprattutto per attestare una concezione dell’amore, in cui il rapporto con la donna viene inteso non tanto come stilnovistico movimento sentimentale nei confronti di una creatura angelicata, discesa per lui da “cielo in terra a miracol mostrare”, o a favorirne la salvazione umana e spirituale, e neppure come pretesto, di marca romantica, per il tramite del quale affermare ed esibire (sotto le mentite spoglie dell’esternazione della tenerezza, degli slanci tumultuosi del cuore, del fuoco ardente della passione ecc.) una personalità tutta intenta a specchiarsi nel lago fatato dei propri patimenti d’amore, quanto piuttosto, molto più concretamente, come inquieta-oscura ossessione per il corpo, per le membra, per le parti intime, per il sesso della donna (ad ammetterlo è lo stesso io, là dove egli recita: «ogni oggetto animato o inanimato è donna, / la fogna luminosa dove sta in agguato il mio sesso / di topo ossessionato»[51]), palesata con un linguaggio, sì, talora involto nel velo (litotico) della metafora e dell’iperbole, ma assai spesso crudo e violento.[52]
È una concezione dell’amore, quella che intride la poesia depalchiana, complicata oltre tutto dall’intrusione di non pochi elementi antropologico-culturali e psicoanalitici. Perché vi s’intrufolano, da un lato, spunti di una religiosità echeggiante quella cristiana (in realtà, è pagano-misterica), nella quale il corpo della donna assume configurazioni di «sinagoga» («e ho nostalgia di me / dentro il tuo corpo / sinagoga»[53]), o di tempio, anzi di recesso del tempio – di «altare / tabernacolo / messa del mio cibo»[54] –, al cui interno, da umile fraticello, l’io amante-poetante recita le sue devozioni, compie i suoi riti celebratori e sacrificali, e si «santifica»[55] («Mi pieghi e da francescano prego sul tuo corpo»[56]; «Mi spezzo, come il pane alla cena, / e dissanguo, come offerta di vino…»[57]; «per il tuo corpo incolume / sono lo sposo della mensa / adorato ogni giorno in ginocchio»[58]; «e come un frate in preghiera / m’inginocchio all’arcata a consumare devotamente / l’ostia / che brilla dall’ostensorio ed ansa / a tubero d’orchidea»[59]); e, dall’altro, vi si innestano tracce e scorie, mai del tutto cancellate, mai del tutto depurate dal filtro della coscienza, affioranti dai cupi e intricati fondali dell’inconscio: la donna, il corpo della donna, con i suoi umori, le sue “pianure irrigate d’acque tributarie”, le sue membra dove scorrono tiepidi flussi, poco a poco si trasmuta in fiume, nell’amato Adige dell’infanzia, che acquista, a sua volta, poetica fisionomia materna («e tu da madre terraquea / chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora / del grembo»[60]; «solida di sali e di spore, / sei l’acqua dell’origine che sporge / la tetta gonfia di maternità / e non flagella…»[61]). Smemorandosi in lei, rientrando nelle sue morbide acque come dentro un nido (o una cavità endouterina) sicuro e protetto, è forse possibile risolvere definitivamente il disagio, il male di vivere, le perenni incertezze, la sofferenza d’essere e di durare, e realizzare la restituito in integrum dello «spirito in frammenti»[62].
Ma anche questo sogno di fuga dalla realtà, dalla storia, dalla trappola della vita che impone le sue “regole”, appronta i suoi trucchi, dissemina i suoi infidi agguati, sottoposto al vaglio e alla critica della ragione, palesa la propria natura di chimerica fantasticheria, di “non luogo” (oύ τóπoς): di vagheggiamento utopico (non dissimile, peraltro, dal vagheggiamento utopico, che l’io aveva già confidato ad uno dei testi di Costellazione anonima: «… forse arriveremo all’origine / al pezzo di terra dove sarò l’indiscreto / giudice di me stesso, non muri / non leggi, tutto aperto, / porte finestre letto, / dove nessun altro fango su due gambe / giudicherà»[63]). L’istanza di regressione al caos dell’indistinto, del primordiale, del vitale, nel profondo dell’io ritorna così a prevalere, con tutto il suo pesante carico di disperazione: l’”anarchico” protagonista dell’invenzione poetica di de Palchi sa che l’ossessione sessuale, scatenando i più elementari istinti, accomuna l’uomo – e, al tempo stesso, lo degrada – a qualsiasi altra specie animale. Coerentemente con la propria concezione del mondo, egli si rende soprattutto conto che l’erotismo, l’amore fisico, il rapporto sessuale con la donna apparecchiano e nascondono, anche nei momenti di più sublime abbandono, l’insidia di catturare l’individuo nella morsa delle ferree leggi della natura volte alla perpetuazione della specie, che costituiscono un invalicabile limite alla sua libertà, una subdola prevaricazione della sua volontà.
Il minuzzolo di speranza, che si era fatto strada a partire dalle Viziose avversioni (1951-1996) e che aveva formato il leit-motiv della più recente produzione poetica depalchiana fino alle Ultime (2000-2005), non può non rivelarsi, pertanto, che un’illusione di tipo leopardiano[64]: l’incontro amoroso-sessuale fra uomo e donna sfuma in una concezione dell’erotismo come violenza reciproca dei corpi, coinvolti in un’epica di tormento e di lotta agonica, le cui punte di degradazione rasentano, per forza immaginale ed espressiva, quelle veementi che potrebbero rappresentare i corpo-a-corpo delle antiche battaglie («folgori di luce aspra sulla fronte, / un taglio di sangue, / non c’è prezzo per la tua violenza / consona alla mia…»[65]; «scàgliati nell’abbraccio e tu anche spèzzati / nell’albume senza interrompere lo scontro / che soccombe alla dinamica ferocia / del tuo esule grembo stracolmo / e fertile come un campo di gramigne»[66]), e dove l’io-scorpione, divenuto di volta in volta ratto, topo, talpa – comunque, «animale braccato che si spacca»[67] –, continua la sua “buia danza” nel marasma insensato dell’esistenza.


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[1] Milano, Mondadori, 1967. Ora in Paradigma – Tutte le poesie: 1947-2005, Milano, Mimesis-Hebenon (con premessa editoriale di ROBERTO BERTOLDO e presentazione critica di ALESSANDRO VETTORI), 2006. I richiami nelle note fanno riferimento a questa edizione.
[2] «… Non sai che / dopo una sovente cena di aringa / mani tagliuzzate, nere di ruggine acidi unti / imparo il disegno industriale / il volino e l’altrui invidia per la borsa di studio, / non sai delle mie colluttazioni con i compagni / per l’esistenza animale – del gobbo Toni, / dal ponte, che mi getta nell’Adige / il cane a zampe legate / uno straccio nella bocca –» cfr., nella sezione Bag of fliers (New York 1961), il componimento di p. 112, in Paradigma, ediz. cit.
[3] «… direi una reale / storia ma diversa / – e del coniglio – / sotto la tettoia di zinco / ondulata nel cortile: // lo tolsi dalla gabbia per le zampe / posteriori, il taglio / della mano (debole) colpì; / il suo lamento di bambino chiuso / – ancora mi è vivo…»: cfr., nella sezione eponima, il testo di p. 142.
[4] Cfr. il componimento n. 1 della sezione Reportage (New York 1957), in op. cit., p. 118.
[5] Cfr. componimento n. 4, ivi, pag. 122.
[6] Cfr. componimento n. 2, ivi, pag. 119.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Componimento n. 8 della sezione eponima della raccolta, in op. cit., pag. 151.
[10] Cfr. il frammento centrale di pag. 73 nella sezione Carnevale d’esilio di La buia danza di scorpione, ivi.
[11] Cfr. il testo n. 9 dell’omonima sezione di Sessioni con l’analista, cit. (pag. 151). Origine, peraltro, che è quella, dal poeta considerata tragica, del proprio concepimento, già emblematizzata nel breve componimento d’apertura di La buia danza di scorpione, ivi (pag. 34): dell’attimo in cui «l’abbietta goccia […] spacca / l’ovum / originando un ventre congruo / d’afflizioni». Un riferimento all’origine affiora anche nelle frequenti immagini d’acqua – l’acqua dell’Adige –, che richiamano il primigenio liquido amniotico nel quale, dopo il concepimento, l’essere si trova a galleggiare nel tempo della pre-nascita. All’origine, inoltre, va collegato l’affettuoso componimento che apre la sezione (intitolata L’assenza) di Paradigma 1950-2000, Marina di Minturno, Caramanica, 2001 (ora nel volume complessivo cit.), dove il nonno materno – «che mi fu padre e visse anarchico» – è colto nei momenti più veri della sua misera ma estrosa esistenza, tra i quali due in particolare spiccano: quello in cui il poeta bambino andava a spasso sul telaio della bicicletta guidata dell’anziano congiunto: «… A sera i ginocchi / non rotano, sente il diabete nelle gambe; / la bicicletta scansa i fossi / della provinciale – ed io curvo, / metà oltre il manubrio, annuso il fanale / a carburo; lui sbuffa / e mi canta con raucedine sulla nuca la puzza / di vino e il Barbiere di Siviglia» (pag. 302); e l’altro, dedicato agli istanti estremi della vita di quegli: «E nello stesso letto, inventando / versi che nessuno scrive / e mi dice, mi protegge / all’ascella che sa di pelo e sigaro; se lo mangia / vivo nelle mie braccia smilze / e smerdate il cancro, e in pena schifosa / si fiata – e ha il tagliente sorriso / d’un gatto / morto» (pag. 303).
[12] ROBERTO BERTOLDO, Leggere Alfredo de Palchi, in AA. VV., Scritti sulla poesia di Alfredo de Palchi con inediti dell’autore, Burolo, I quaderni di Hebenon, 2000, pag. 39.
[13] Cfr. la chiusa del testo n. 9 della sezione Un ricordo del 1945 di Sessioni con l’analista, cit., pag. 112.
[14] Cfr. il testo n. 1 della sezione Reportage di Sessioni con l’analista, cit., pag. 118.
[15] Riverside (California), Xenos Books (traduzione inglese – The Scorpion’s Dark Dance – di SONIA RAIZISS). Ora in Paradigma-Tutte le poesie…, cit.
[16] Cfr. il componimento Uovo che si lavora nella luce ovale, nella sezione Carnevale d’esilio, ivi, pag. 62.
[17] Ivi, pag. 74.
[18] Ivi, pag. 63.
[19] «Ti si offende – si insiste a dire / che t’ingrassi nello sterco / ma io so qual è / la verità: segui l’obbligo della / condizione / – tolto dal trogolo / corda al muso oblungo non hai diritto, / resiste l’intuizione quella consapevolezza / ma sei rattenuto / malmenato sulla cassa rovesciata / e ti si sgozza l’intelligenza / mentre il sangue ti sballotta / e mi sballotta in rantolo»: è il componimento Ti si offende – si insiste a dire, nella sezione Il muro lustro d’aria, ivi, di pag. 95.
[20] Ivi, pag. 94.
[21] Ivi, pag. 36.
[22] Ivi, pag. 43.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, pag. 41.
[25] Ivi, pag. 56.
[26] Ivi, pag. 51.
[27] Ivi, pag. 82.
[28] Ivi, pag. 61.
[29] Ivi, pag. 90.
[30] Ivi, pag. 79.
[31] Ivi, pag. 71.
[32] Ivi, pag. 44.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem. Secondo un’antica leggenda popolare, ripresa poeticamente da DE PALCHI nella sezione Fungo amletico della raccolta Paradigma – 1950-2000 (cfr. il breve componimento n. 29, a pag. 322: «in un cerchio di fuoco / anche lo scorpione / piantandosi l’aculeo in testa / è suicida»), lo scorpione, quando si vede perduto nell’assedio delle fiamme, si autoelimina.
[35] Si abbatte il pugno, ne La buia danza di scorpione, ivi, pag. 46.
[36] Riverside (California), Xenos Books, 1997, traduzione inglese – Anonymous Constellation – di SONIA RAIZISS, versione originale italiana, Marina di Minturno, Caramanica, 1998. Ora in Paradigma-Tutte le poesie…, cit.
[37] Ivi, pag. 184.
[38] In op. ult. cit., pag. 213.
[39] Ivi, pag. 215.
[40] Ivi, pag. 218.
[41] Ivi, pag. 209.
[42] Ivi, pag. 221.
[43] Ivi, pag. 210.
[44] Ivi, pag. 203
[45] Ivi, pag. 231.
[46] Ibidem.
[47] Cfr. CARL GUSTAV JUNG, Psychologische Typen, Zürich 1959 (Tipi psicologici, traduz. ital., Newton Compton, Roma 1970, pagg. 417-418).
[48] Cfr., ne Le viziose avversioni (Riverside, Xenos Books, 1999, traduzione inglese – Addictive Aversions – di SONIA RAIZISS ed altri), il testo poetico il cui incipit è La combustione cristallizzata del cuore, in op. cit., pag. 266.
[49] Il termine è heideggeriano: cfr. MARTIN HEIDEGGER, Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, pag. 155.
[50] La poesia di de Palchi risulta tecnicamente organizzata in modo da lasciarne risaltare, pour l’oeil, i valori plastico-formali delle strutture versiche e, pour les oreilles, quelli fonetici delle parole: essa mirabilmente si presta, pertanto, ad una recitazione orale, che permette al significante fonetico di abbattere i lacci oppostigli dal significato.
[51] Cfr. la chiusa del componimento il cui verso incipitale è Il vento sibila tra lo steccato e batte, ivi, pag. 250. Ma se ne leggano, nella linea indicata nel testo, le seguenti altre “ammissioni”: «quello che m’intuisce / è la tua coscia felice; la notte abbrevia / il calore al suono della sveglia / e mi alzo orbo: talpa / vivente nel buio nel tunnel del corpo / nutrito dalla coscia» (cfr. la sequenza versica n. 5 della sezione Momenti, ivi, pag. 235); «sono il fiato che scotta il taglio rosso / la verticalità vertiginosa; / sono la lingua / che flessibilmente accede per le cosce guizzanti / come carpe…» (cfr. i versi centrali del componimento che principia con Potessi scatenarti nella camicia da notte i fianchi, in Paradigma, cit., pag. 342); «la torcia ti genera la vampa / delle cosce, penetra toccando ogni atomo / ti squassa nelle viscere / un potente orgasmo / con il bene e il male; / ora in te tutto riposa / con me sulla tua pelle» (è la chiusa della sequenza versica n. 8 della sezione Momenti di Le viziose avversioni, cit., pag. 238); et similia.
[52] L. FONTANELLA, nel suo fondamentale studio La parola transfuga. Scrittori italiani in America (Firenze Edizioni Cadmo, 2003, pp. 230-231), evidenzia come, nella poesia depalchiana, «l’eros appare, di fatto, in tutta la sua gamma espressiva, non soltanto, cioè, nella variegata geografia psicologica che l’accompagna: dalle gelosie agli inganni, agli scherzi proibiti(vi), alle spasmodiche attese, alle nostalgie, alle rabbie, alle smanie, ai godimenti sadomasochistici, di cui abbiamo tanti esempi nella classicità latina […]. Ad una tale sete di tensione vitale non può che corrispondere, inversamente proporzionale, quale correlativo rovesciato, una pulsione di morte. La costellazione obbligata di eros/tanatos trova in non poche di queste pagine (e ancora più troverà in Essenza carnale, ancorché in uno stato proiettivo), la propria irrisolta, angosciante rappresentazione. Dietro i vetri lattiginosi di un motel, di un’umida stanza poco illuminata, c’è tutto un mondo di angosce incomunicate, la melanconia planetaria di una struggente solitudine, la disperazione di un uomo solo. La morte come antidoto all’eros assurge sì […] “a simbolo di forza vitale e appiglio contro la solitudine e il silenzio” [,,,], ma rappresenta anche, in modo irriducibile, fino all’estenuazione vitale, una sorta di cupio dissolvi dove tutto si annulla, come in un tourbillon allegro e tragico insieme».
[53] Cfr. la chiusa del componimento che inizia con il verso Quanto dannarmi, ivi, pag. 258.
[54] Sono i versi successivi all’iniziale di Mi pieghi e da francescano prego sul tuo corpo, ivi, pag. 268.
[55] Per il tramite dell’incontro sessuale con il corpo della donna, l’io resiste all’«angoscia di esistenza e santifica / il significato di uomo»: cfr. il componimento che inizia con il verso Sempre il momento di rinascere, ivi, pag. 264. Si legga, in proposito, l’acuto rilievo di ROBERTO BERTOLDO (in loc. cit., pag. 41): ”Il corpo sinagoga” «è il mondo – ossia de Palchi fuori dalla donna – la poesia, “scodella di cancro / e ciste…”. Il mondo è la poesia, il corpo della donna la religione. L’evasione, o la salvezza, non è quindi nella poesia, che è invece il luogo della speranza, dell’attesa, del dolore, ma nella donna, nel suo corpo. La poesia di de Palchi non è dunque una poesia lontana dalla realtà, anche se è realtà, spesso emblematica, dell’io».
[56] Cfr. l’attacco del componimento citato nella nota n. 53.
[57] Cfr. il componimento, il cui verso incipitale è Mi, della sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 358.
[58] Cfr. il componimento che inizia con il verso Sono il dilemma, ivi, pag. 344.
[59] Cfr. il componimento che incomincia con Dammi la voce sommessa del grembo perch’io parli, ivi, pag. 360. Altrove, il linguaggio poetico si fa più diretto ed esplicito: «in ginocchio dal peso delle colpe / ti divoro la verticale spoliazione di barbara / con l’intenzione di uscirne illeso / alleggerito dalla benedizione del portale» (cfr. il componimento che comincia con Orecchio il silenzio di quella sedia, ivi, pag. 339); «Sono il tuo sacrificio / l’agnello / perenne che infiora di leccate le colline / e le pianure irrigate d’acque tributarie / che placidamente scendono il corso per buttarsi / con me a precipizio / nella caverna delle tue illuminazioni» (cfr. il componimento che ha come primo verso Sono il tuo sacrificio, nella sezione Ultime di Paradigma, cit., pag. 384); «… ma perché allora / questo sussulto questo / piegarmi in ginocchio davanti alla perfezione / del triangolo che si esprime a segnali» (cfr. il primo componimento, il cui verso iniziale è Giallo, della sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 338); «e tu, monacale, divarichi le carni ustionate, / e con la bocca saturnina piena di lingua che serpeggia / lucifera / avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato / vinto con la religione della tua essenza / carnale» (cfr. il componimento che inizia con Sono il dilemma, ivi, pag. 344). Sul punto, MARIO MARCHISIO (La carne interrogata, in La chiarezza possibile – Esperienze letterarie, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pag. 167) perspicacemente annota: «Credo […] che non sia azzardato indicare nel sadomasochismo il collante di questo universo poetico, indagato e scrutato da un Torquemada del sesso il quale cerca di strapparne il segreto con ogni mezzo. Inutile aggiungere che lo svelamento non si realizzerà, sancendo il trionfo della tortura senza fine, del deserto insaziato e dell’inferno della mente».
[60] Cfr. il componimento che inizia col verso Un’arcata di prosodie carnali, nella sezione Essenza carnale di Paradigma, cit., pag. 355.
[61] Ibidem.
[62] Ibidem.
[63] Cfr. la chiusa del componimento, il cui primo verso è Lo strumento che erode la vita, in Costellazione anonima, ivi, pag. 207.
[64] Del Leopardi di quei testi poetici, in cui maggiormente il maglio pesante della ragione disintegra tutto quanto il fuoco del sentimento a fatica riesce a generare e ad alimentare; del Leopardi anche di una delle sue metafisiche riflessioni affidate alla prosa delle Operette morali, nella quale ricorda «che l’uomo non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita».
[65] Cfr. il componimento n. 9 della sezione Mutazioni di Le viziose avversioni, ivi, pag. 290.
[66] Cfr il componimento che inizia col verso Sono il simbolo, nella sezione Essenza carnale, cit., pag. 352.
[67] Cfr. il componimento, il cui incipit è Questa neve m’indietreggia, in Costellazione anonima, cit., pag. 206.


(Pubblicato in AA.VV. Alfredo de Palchi, La potenza della poesia, a cura di Roberto Bertoldo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 11-25; poi in Franco Pappalardo La Rosa, Il fuoco e la falena. Sei poeti del Novecento, ibidem, 2009, pp. 61-83)

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